Era il 15 novembre 1988 quando, dopo aver girato due volte intorno alla terra, una navicella priva di equipaggio, atterrò in completa autonomia al cosmodromo di Baikonour, completando la sua missione con successo. Probabilmente questo fu il momento più alto dell’innovazione tecnologica dell’Unione Sovietica, che la storia ricordi.
Buran, ovvero «tormenta di neve», è stato uno spazioplano sovietico progettato durante la Guerra Fredda come risposta all’americano Space Shuttle. Difatti il governo russo considerava il progetto americano una potenziale minaccia, poiché sospettava che fosse usato per scopi militari.
Così, il regime sovietico investì una somma enorme per sviluppare un progetto che potesse sfidare lo Space Shuttle in ogni aspetto. Nel piano ambizioso, furono coinvolte – direttamente e indirettamente – più di 1 milione di persone di 1286 istituzioni e imprese. Il costo complessivo del progetto si stima in circa 16,4 miliardi di rubli.
L’inizio ufficiale del programma fu il 12 febbraio 1976, con un ritardo di due anni rispetto agli americani. Per recuperare il tempo perso, si scelse, dopo molte discussioni tra i vari responsabili del progetto e la leadership militare, di adottare un design molto simile a quello dello Shuttle, poiché i test nella galleria del vento mostravano che la forma aerodinamica della navetta NASA fosse la migliore soluzione possibile.
Il progetto del primo veicolo spaziale riutilizzabile sovietico iniziò nel 1976 e si basava sul concetto di un aereo spaziale alato. Nel 1980 furono costruiti i primi prototipi per testare le caratteristiche aerodinamiche e termiche del design. Nel 1984 fu realizzato il primo modello a grandezza naturale chiamato OK-GLI, che effettuò il suo primo volo suborbitale nel luglio dello stesso anno.

Nonostante l’aerodinamica esterna del velivolo sovietico fosse simile allo Shuttle vi erano importanti differenze progettuali. L’orbiter era spinto da 2 soli propulsori necessari solo per le manovre in orbita o durante il rientro. Inoltre era più grande dello Shuttle, vantava un apertura alare di 24 metri, era lungo ben 35,4 metri ed alto 16,5 metri.
Le gradi dimensioni del velivolo costrinsero i progettisti a costruirlo in modo da poter essere trasportato fino alla rampa di lancio in posizione orizzontale, per poi posizionarlo verticalmente sulla rampa, questa soluzione avrebbe velocizzato notevolmente i tempi per il trasporto.
Sulla carta, le caratteristiche del Buran erano superiori a quelle del suo rivale americano. Infatti, aveva una capacità di carico utile maggiore, di circa 30 tonnellate, e poteva rientrare nell’atmosfera con 25 tonnellate di materiale recuperato. Queste caratteristiche lo rendevano più versatile e performante del suo concorrente statunitense, che invece poteva portare in orbita bassa solo 27,8 tonnellate di carico utile e riportarne a terra meno di 15.
La caratteristica più sorprendente del Buran era la sua capacità di navigare in modo autonomo, senza bisogno di un pilota umano. Questo fu dimostrato nella sua unica missione di prova, in cui il Buran decollò, orbitò e atterrò da solo, grazie a un sofisticato sistema di navigazione automatico. Questa era una tecnologia all’avanguardia per l’epoca, che lo Space shuttle non possedeva (un sistema di atterraggio automatico fu introdotto solo nella missione STS-121 del 2006, ovvero 18 anni dopo il primo volo del Buran).
Di pari passo con lo sviluppo del Buran, gli ingegneri sovietici studiavano anche il razzo vettore che ne avrebbe permesso l’immissione in orbita. Nacque così il progetto del razzo Energia. A differenza dello Shuttle, che aveva i motori principali integrati nella navetta, il Buran li aveva nel razzo Energia, che veniva scartato dopo aver esaurito la spinta. Questa era sicuramente la caratteristica che più distingueva il Buran dallo Shuttle.
Infatti, il velivolo americano, per sfuggire alla gravità terrestre sfruttava i potenti motori dell’orbiter (SSME) e due booster a propellente solido. Il velivolo sovietico invece si affidava, per uscire dall’atmosfera, ad un solo potente razzo, per l’appunto l’Energia, progettato dall’ingegnere. Valentin Glusko.
Glusko, dotato di grandi capacità tecniche, riuscì a sviluppare il più potente dei motori a razzo a propellente liquido mai esistito. Il suo nome era RD-170. Per raggiungere un livello così elevato di spinta il propulsore utilizzava una combinazione di ossigeno liquido e RP-1 ed era caratterizzato da un ciclo a combustione stadiata. Una singola turbo pompa alimentava le 4 camere di combustione e i 4 ugelli. Tale configurazione fu preferita perché limitava le instabilità di combustione presenti negli endoreattori più grandi, migliorandone affidabilità e le prestazioni.

Verso la fine degli anni ottanta, nonostante i successi raggiunti sia in fase di progetto che nei test, il progetto Buran naufragò per la progressiva implosione dell’Unione Sovietica. Prima la crisi economica, poi la fine stessa dell’Unione Sovietica vanificarono l’enorme sforzo tecnico e umano, che aveva portato alla realizzazione di un velivolo spaziale riutilizzabile, dotato di caratteristiche per certi versi addirittura superiori a quelle dello Space Shuttle.
Oltre al primo orbiter, erano stati costruiti altri due Buran, noti come Ptichka e Baikal, progettati per effettuare diverse missioni spaziali nei primi anni ’90, tra cui il rendezvous orbitale con la stazione spaziale Mir
Tutto ebbe fine il 30 giugno 1993, quando il presidente della nuova Federazione Russa Boris Eltsin firmò l’ordine per la chiusura definitiva del Progetto Buran, mettendo la parola fine a un’impresa che durava da 18 anni.
Dopo la fine del programma Buran, i vari veicoli spaziali e i prototipi costruiti hanno avuto destini diversi: alcuni sono stati acquistati da paesi stranieri o esibiti in musei e mostre; altri componenti smantellati sono andati perduti.
Molti dei materiali, le navicelle e le parti del lanciatore Energia furono semplicemente distrutti, subendo la sorte di abbandono totale che la crisi economica e le trasformazioni socio-politiche dell’ex Unione Sovietica hanno inflitto a gran parte delle infrastrutture industriali e tecnologiche che erano il vanto del regime.
Una sorte particolarmente triste è toccata all’orbiter K1, l’unico Buran ad essere stato realmente lanciato nello spazio. Il 12 maggio 2002 fu distrutto dal crollo del tetto dell’hangar del cosmodromo di Baikonur in cui era stato parcheggiato. Le pesanti piogge dei giorni precedenti avevano minato la struttura – resa fatiscente dall’incuria – provocando il crollo del tetto dell’edificio, uccidendo anche sette lavoratori.
Di questi portenti della tecnologia sovietica rimangono 2 carcasse di Buran tristemente abbandonante in un hangar in Kazakistan. Tuttavia lo sviluppo tecnologico di quegli anni rimane ancora tangibile ai giorni nostri, insieme al ricordo di un progetto tanto imponente quanto ambizioso.