Mercoledì 22 luglio 1970. Sul direttissimo Freccia del Sud, Palermo-Torino, che collega le due anime della penisola, ci sono circa 200 persone, sono lavoratori pendolari che tornano al nord dopo un soggiorno in famiglia, un gruppo di pellegrini diretto a Lourdes, viaggiatori occasionali, tutti stipati in quei vagoni roventi del sole di luglio.
Il viaggio è interminabile e con quei sobbalzi continui non si riesce neanche a dormire. Il treno proveniente da Villa S. Giovanni dopo aver traghettato alle 14:35, stava entrando in stazione a circa 100 km/h quando il macchinista Giovanni Billardi e l’aiuto macchinista Antonio Romeo avvertirono un forte sobbalzo della locomotiva. A quel punto azionano il freno rapido di emergenza.
Il convoglio prese a rallentare comprimendosi mentre i respingenti delle carrozze assorbivano la decelerazione. La frenata avvenne regolarmente per le prime cinque carrozze, finché le sollecitazioni meccaniche spinsero uno dei carrelli della sesta carrozza fuori dalla sede dei binari.
Le carrozze successive sviarono anch’esse nel corso dei 500 metri di frenata; durante la brusca decelerazione alcuni ganci di trazione si spezzarono e il convoglio si divise in tre tronconi e un paio di carrozze si rovesciano sulla massicciata. Alle 17:10, il treno finisce il suo viaggio a Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, con 6 morti e 77 feriti. Tutti i deceduti si trovavano tra la nona e l’undicesima carrozza.
Poi l’arrivo dei soccorsi composti dai vigili del fuoco di Palmi, Cittanova e Reggio Calabria, dagli uomini della Celere e dei Carabinieri la locomotiva e le prime cinque carrozze erano ferme sul binario a soli 30 metri dalla stazione.

Il misterioso sobbalzo era avvenuto nel breve tratto tra il cavalcavia delle Ferrovie Calabro Lucane e il gruppo di scambi all’ingresso in stazione di Gioia Tauro, a 750 metri dall’ingresso delle piattaforme di stazione. Il capotreno di allora Francesco Nazza confermò che fino a quel momento la marcia procedeva regolarmente, fatto supportato anche dalla testimonianza di due dei tre uomini in servizio a bordo che avevano percorso tutto il convoglio.
Subito dopo l’evento, il capostazione Teodoro Mazzù precisò di aver udito «un botto tremendo» e visto una colonna di fumo che si è subito innalzata alta dal convoglio deragliato. Una scena apocalittica. Il caos più completo. I passeggeri si buttavano giù dalle vetture, cercavano spasmodicamente di afferrare i loro cari, avevano il viso annerito dal fumo e le carni straziate dalle lamiere.
Ore 17:08
Nelle case circostanti si sente la terra tremare, alcuni credono che sia il terremoto. Da lontano, guardando verso la stazione si vedono le fiamme alzarsi dalle carrozze. Dentro, c’è un cimitero di corpi straziati. I vigili del fuoco tentano di estrarli con la fiamma ossidrica, la scena è quella di un disastro. Si pensa subito a una disgrazia, un errore umano o una fatale avaria.
Quella, però, Gioia Tauro, è una città che dista pochi chilometri da Reggio Calabria, dove da sette giorni i cittadini insorgono contro la decisione di fare di Catanzaro e non Reggio il capoluogo di regione. Una scelta combattuta dalla popolazione che aveva fatto di Reggio un campo di battaglia, con barricate che chiudevano l’accesso alle strade, presidi e episodi di guerriglia urbana.

Il 15 luglio ci scappa anche il morto: è Bruno Labate, iscritto alla CGL, muore sotto una carica dalla polizia. Al suo funerale la folla insorge di nuovo davanti alla Questura assaltano il palazzo, la quinta sezione della Mobile viene data alle fiamme. Il sindaco Battaglia e il gruppo della DC, che inizialmente avevano sostenuto e animato l’insurrezione, se ne dissociano e nasce il Comitato d’azione per Reggio Capoluogo, guidato da tre missini, Natino Aloi, Renato Meduri e Ciccio Franco, consigliere comunale in quota MSI e sindacalista Cisnal dei ferrovieri, che conia la strategia «Boia chi molla».
Gli anarchici della baracca
In uno scenario simile, dopo i fatti di piazza Fontana, l’ipotesi che il deragliamento del treno del Sole fosse frutto di un’operazione di deliberato sabotaggio da parte dei rivoltosi di Reggio. Lo pensano i magistrati della Procura; lo sospettano i reggini che hanno alzato le barricate; i giovani anarchici, paladini della controinformazione, i cosiddetti Capelloni, tentano di scoprirlo.
Tuttavia la parola «attentato» non viene pronunciata in nessuna sede, neanche in quella di indagine della Polfer. Il capostazione e tre ferrovieri vengono indagati e subito viene archiviata la loro posizione. Anche se la perizia dei tecnici considera anche l’attentato dinamitardo, l’inchiesta si chiude. Solo quella della polizia, però.
C’è un gruppo di attivisti reggini, noto come «Gli anarchici della baracca», dal posto pittoresco e fatiscente in cui, studiavano e discutevano e abitavano, che riguardo alla strage guarda più lontano della polizia. Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, peraltro testimoni a favore di Pietro Valpreda nell’inchiesta su piazza Fontana, hanno osservato da vicino la rivolta di Reggio documentando, con le macchine fotografiche, la presenza nelle barricate di neofascisti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale.
Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia
Nella baracca avevano raccolto del materiale sul disastro della Freccia del Sud, documenti delicati che era il caso di mostrare a un amico avvocato, Edoardo Di Giovanni, autore della contro-inchiesta sull’attentato di Milano. Li aspettava a Roma, dove i ragazzi erano diretti nella loro Mini minor carica di fascicoli, il 26 settembre del 1970, dove, sull’autostrada tra Ferentino e Frosinone, a 58 chilometri da Roma, si schiantano contro un camion parcheggiato sul ciglio della strada, coi fari spenti.
I magistrati di Frosinone concludono che si è trattato di una disgrazia, eppure lo stato in cui viene ritrovata la Mini minor fa pensare alla presenza di un terzo veicolo. Un mezzo che potrebbe aver speronato l’auto dei ragazzi spingendola contro il rimorchio.

Il Golpe borghese
Pochi mesi dopo l’incidente e mentre in Reggio Calabria si combatte una vera e propria guerra civile, a Roma il principe nero Junio Valerio Borghese, sotto l’egida Fronte Nazionale marcia su Roma tentando il colpo di Stato. Secondo i piani dell’ex colonnello della X Mas, il golpe avrebbe portato all’assedio del Ministero dell’Interno, del Ministero della Difesa e delle sedi RAI. Il piano prevedeva anche la deportazione degli oppositori, il rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e l’assassinio del capo della polizia Angelo Vicari. Il colpo di Stato viene annullato dallo stesso Boghese, per motivi mai chiariti.
Una disgrazia
«Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia», aveva confidato Gianni Aricò alla madre pochi giorni prima di morire e pochi mesi prima del golpe borghese. «È meglio che non fai partire tuo figlio», aveva detto un amico poliziotto al padre di Lo Celso, la sera prima della partenza. Impossibile non pensare che i ragazzi fossero in possesso di notizie riservate e delicatissime e che molto di quello che sapevano era custodito nel bagagliaio della Mini minor blu, che dopo l’incidente fu trovata completamente svuotata del carico di documenti.
L’inchiesta viene ugualmente archiviata nel 1971, così come nello stesso periodo, grazie a un compromesso, viene deposta ogni rivendicazione dagli insorti di Reggio. Il presidente del consiglio Emilio Colombo annuncia in parlamento che l’università e il capoluogo resteranno a Cosenza e Catanzaro, ma in cambio Reggio diventerà il primo polo siderurgico, con un investimento di 10mila posti di lavoro. La polizia e l’esercito entrano in città per sgomberare le barricate. I moti, insanguinati da 28 attentati dinamitardi, hanno fatto decine di morti, centinaia di feriti.
La verità
Nel 1993 nell’ambito di una maxi inchiesta «Olimpia 1» sulla ‘Ndrangheta calabrese, il pentito Giacomo Lauro, dichiarò davanti al sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Vincenzo Macrì, che nel 1970 in Calabria si erano formate alleanze strategiche tra criminalità organizzata, eversione nera e altri esponenti di diversi movimenti estremisti.
Lauro dichiarò di avere avuto rapporti con Vito Silverini, un fascista esaltato vicino ai vertici del Comitato d’Azione che in quel periodo stava infiammando i moti di Reggio, nonostante fosse analfabeta. Lauro aveva assunto Silverini (noto come «Ciccio il biondo») come operaio tra il 1969 e il 1970 e lo aveva rincontrato in carcere dopo essere stato arrestato per un furto alla Cassa di Risparmio di Reggio.
Silverini non era nuovo all’esperienza carceraria, avendo già scontato alcuni mesi per violenze legate all’insurrezione cittadina. Nel carcere reggino Silverini e Lauro avevano condiviso la cella numero 10. Silverini aveva confessato a Lauro di possedere una somma presso la Banca Nazionale del Lavoro pagatagli dal Comitato proprio per la bomba messa sulla tratta Bagnara – Gioia Tauro, che aveva causato il deragliamento del treno. Silverini aveva portato una carica di dinamite da miniera sul luogo insieme a Giovanni Moro e Vincenzo Caracciolo, nascondendola sull’Ape Piaggio di quest’ultimo, e l’aveva posizionata con un innesco a miccia a lenta combustione.
Silverini si vantò con Lauro di essere sul posto sia al momento dell’esplosione. «mi disse che l’attentato era avvenuto in ore diurne e cioè nel pomeriggio, tra le 16 o le 18, e questo aveva consentito a lui e a Caracciolo di osservare senza difficoltà dall’alto la scena» che all’arrivo del questore Santillo, e di aver assistito alle prime fasi dell’inchiesta sul campo: inoltre affermò di aver provocato con quella bomba la distruzione di 70 metri di ferrovia, fatto questo non corrispondente al vero.
Lauro in seguito ripeté la sua deposizione a Milano, al giudice istruttore Guido Salvini che stava indagando sull’attività eversiva di Avanguardia Nazionale. Giacomo Ubaldo Lauro in un interrogatorio dell’11 novembre 1994 confessò di aver avuto parte nella vicenda, e di essere stato lui stesso a consegnare l’esplosivo a Silverini, Moro e Caracciolo. In cambio aveva ricevuto alcuni milioni di lire, provenienti dal Comitato d’azione per Reggio capoluogo.
Le dichiarazioni di Lauro fatte al giudice Salvini, furono avvalorate dalla testimonianza di Carmine Dominici, neofascista di Avanguardia nazionale calabrese, ex faccendiere del marchese Felice Genoese Zerbi, dirigente di AN. La rivolta calabrese, secondo le dichiarazioni del pentito, sarebbe stata armata dalla ‘Ndrangheta, che forniva il materiale esplodente e finanziata da facoltosi esponenti di Destra.
Come ipotizzavano i cinque anarchici calabresi dietro la rivolta per Reggio Capoluogo c’era la «mano» della destra eversiva che, dalla capitale, controllava tutto. Nel luglio 1995 vengono indagati per concorso in strage l’armatore Amedeo Matacena senior, Angelo Calafiore, ex-consigliere provinciale missino di Reggio, Fortunato Aloi e Renato Meduri. Tutti vengono prosciolti.
L’epilogo
Lauro rivela che quello di Gioia Tauro sarebbe stato un attentato e che il materiale lo avrebbe procurato lui. La carica di esplosivo era stata sistemata sui binari, era esplosa prima del passaggio del convoglio, formando un fosso profondo diversi metri e causandone il deragliamento.
Dominici aggiunse che nell’ambiente della malavita calabrese, della morte dei quattro ragazzi si parlava come di un omicidio. Dopo quarantasette anni i nomi di chi commissionò la strage restano ignoti. Fu uno dei tanti funesti episodio che hanno caratterizzato il periodo storico della strategia della tensione. Quanto alla tragica morte di quei quattro brillanti ventenni una sola cosa è certa: il camion parcheggiato era di proprietà di un’azienda del «principe nero», Junio Valerio Borghese.