Uccise a sprangate la moglie dell’uomo che l’aveva abbandonata, Giuseppe Ricciardi, e i suoi tre bambini: Giovanni, di sette anni, Giuseppina, di cinque, e il piccolo Antonio, di appena 10 mesi, nel seggiolone.
Quello di via San Gregorio a Milano è uno dei crimini più feroci che la cronaca nera italiana abbia mai affrontato. Era la tarda serata del 29 novembre 1946. Rina Fort, una donna friulana di 31 anni, minuta, bruna, non bellissima, ma si diceva molto sensuale, lasciò la pasticceria di via Settala 43 dove lavorava come commessa e percorse le poche centinaia di metri che la separavano da via San Gregorio 40, una traversa di via Vittor Pisani a Milano.
La donna, che vestiva un soprabito scuro, non bussò, perché il portoncino della casa aveva la serratura rotta ed era aperto, salì al primo piano dove in un appartamento di quattro stanze viveva Franca Pappalardo, di 40 anni, legittima moglie in attesa del quarto figlio di Giuseppe Ricciardi, suo ex amante.
I tre bambini erano lì con lei, Giovanni, di sette anni, Giuseppina, di cinque, e il piccolo Antonio, di appena 10 mesi. Le due donne parlarono, fu trovata poi una bottiglia di rosolio e dei bicchieri sporchi. Ma in breve tempo esplose la tensione che divorava l’amante abbandonata da Ricciardi, catanese, un uomo alto e magro con baffetti sottili che aveva un negozio di tessuti in via Carlo Tenca, proprio all’angolo del palazzo dove era venuta a vivere la moglie.
Rina afferrò una sbarra di ferro e cominciò la mattanza
La mattina dopo, a fare il macabro ritrovamento è la commessa di Ricciardi, Pina Somaschini, che entrò alle 8:00 nella casa di via San Gregorio per prendere le chiavi del negozio, ma si trovò davanti i cadaveri di Franca Pappalardo e del figlio maggiore distesi all’ingresso, in cucina invece, c’erano i corpi del piccolo Antonio sul seggiolone e Giuseppina. Le vittime giacevano riverse in una pozza di sangue, materia cerebrale e tracce di vomito.
Il portiere dello stabile disse di aver chiuso il cancello alle 21 in punto come tutte le sere, ma mancava la serratura che era in riparazione e chiunque sarebbe potuto entrare senza difficoltà.
L’indagine fu affidata al famoso commissario Mario Nardone, per la polizia l’omicida era un conoscente della Pappalardo, perché la donna lo aveva accolto in casa e gli aveva offerto anche un liquore. Gli assassini avrebbero potuto anche essere due, dato che i bicchierini sporchi – su uno dei quali furono rinvenute tracce di rossetto – erano in totale tre. Pare mancassero alcuni pezzi d’argenteria di modesto valore, quasi certamente sottratti per simulare maldestramente una rapina degenerata in omicidio.
Gli inquirenti scartarono quasi subito l’ipotesi della rapina: la famiglia versava in condizioni economiche quantomeno precarie e il negozio di Ricciardi – soprattutto dopo il licenziamento di Rina Fort, che pare avesse talento negli affari – era sempre a un passo dalla chiusura, con numerose cambiali in protesto.
Quello di via San Gregorio pareva decisamente un delitto passionale, dato che erano stati uccisi dei bambini che non avrebbero nemmeno potuto testimoniare. La donna aveva lottato prima di essere uccisa e furono trovati tra le sue unghie dei capelli di donna. Inoltre sulla scena del delitto venne trovata stracciata una fotografia dei coniugi Ricciardi il giorno delle nozze.
Giuseppe Ricciardi si trovava a Prato per acquistare stoffe; rintracciato e informato dell’accaduto, subito il pensiero corse a Rina, la mora friulana che al mattino del 30 novembre, come se nulla fosse, si era presentata puntuale nella pasticceria di via Settala 43. L’uomo venne interrogato e fece il nome di Rina Fort, sua commessa e amante dal settembre del 1945. La Polizia la cercò a casa sua in via Mauro Macchi 89, poi andarono alla pasticceria.
Quando gli agenti del commissario Nardone andarono a prendere Rina Fort nel negozio di via Settala, lei assunse un’aria meravigliata, fu arrestata mentre serviva i clienti, scherzando e raccontando aneddoti. Prima di confessare resistette per ottanta ore a diciassette interrogatori, nonostante prove schiaccianti come il cappottino macchiato di sangue ritrovato in via Mauro Macchi. Alla fine, Rina ammise l’abisso in cui era precipitata.
Al suo avvocato difensore denunciò di essere stata malmenata e presa a manganellate durante l’interrogatorio. Sostenne di aver partecipato all’eccidio, ma di non aver toccato i bambini; accusò Ricciardi di essere il mandante del delitto, assieme a un tal non meglio identificato Carmelo.
Aggiunse che, nelle intenzioni dell’ex amante, ella e Carmelo avrebbero dovuto inscenare un furto per intimorire Franca Pappalardo, indurla a credere che la vita a Milano fosse troppo pericolosa e spingerla a tornare a Catania; ma, una volta giunti in via San Gregorio, la situazione sarebbe precipitata, anche a causa di una sigaretta drogata che il misterioso Carmelo le avrebbe offerto.
La dinamica del delitto ricostruita dalla stessa Rina Fort nella sua unica dettagliata confessione, resa nella Questura di Milano una settimana circa dopo l’omicidio, dopo giorni di estenuanti interrogatori:
«Quella sera vagavo senza meta quando, all’altezza di via Tenca, automaticamente voltai a destra ed entrai nello stabile numero 40 di via San Gregorio, attraversai l’interno dell’andito, salii al primo piano e bussai alla porta d’ingresso della famiglia Ricciardi. La signora chiese chi fosse, poi aprì la porta.
Entrai porgendole la mano ed ella mi salutò cordialmente. Ricordo che reggeva in braccio il piccolo Antoniuccio. Mi introdusse in cucina facendomi sedere, mentre gli altri due bambini giocavano fra loro. Appena seduta avvertii un lieve malessere, tanto che la signora Pappalardo mi diede un bicchiere con acqua e limone. Quindi ella volle chiarire la stranezza della mia visita:
«Cara signora» – disse – «lei si deve metter l’animo in pace e non portarmi via Pippo, che ha una famiglia con bambini. La cosa deve assolutamente finire, perché sono cara e buona, ma se lei mi fa girare la testa finirò per mandarla al suo paese». Preciso che prima di porgermi il bicchiere la signora depose il bambino sul seggiolone e dopo aver parlato mi portò dalla cucina una bottiglia di liquore allo scopo di offrirmi da bere.
Quindi ritornò nella camera da pranzo per prendere un cavatappi, non avendolo trovato in cucina. A questo punto, mentre la Pappalardo era nella stanza da pranzo, ruppi il collo della bottiglia di liquore e ne versai in abbondanza. Accecata dalla gelosia dalle parole poco prima rivoltemi dalla Pappalardo, oltre che eccitata dal liquore, mi alzai andandole incontro.
Giunta nell’anticamera l’incontrai mentre tentava di venire in cucina. Alla mia vista essa si spaventò, indietreggiando, mi avventai sopra di lei e la colpii ripetutamente alla testa con un ferro che avevo preso in cucina e di cui non sono in grado di precisare le dimensioni. La Pappalardo cadde tramortita sul pavimento, io continuai a colpirla. Il piccolo Giovannino, mentre colpivo la madre, si era lanciato in difesa di lei afferrandomi le gambe.
Con uno scrollone lo scaraventai nell’angolo destro dell’anticamera e alzai il ferro su di lui: alcuni colpi andarono a vuoto e colpirono il muro, altri lo raggiunsero al capo. Preciso di aver abbattuto prima Giovannino; poi entrata in cucina, colpii la Pinuccia; ad Antoniuccio, seduto sul seggiolone, infersi un solo colpo, in testa. Frattanto Giovannino si era alzato dall’angolo dove giaceva, per cui calai su di lui altri colpi, facendolo stramazzare al suolo esanime con la testa presso la porta della cucina.
La Pinuccia, colpita in cucina, era caduta riversa accanto al tavolo. Terrorizzata dal macabro spettacolo, scesi le scale e mi portai davanti alla porta del retrostante negozio, subito a destra della scala. Dall’interno il cane abbaiava rabbiosamente. Avrei voluto tornare sul luogo dell’eccidio, ma sbagliai strada e mi ritrovai sui gradini che portano alla cantina. Rimasi seduta sul primo gradino pochi attimi per riprendere fiato, poi risalii le scale dell’appartamento, nel quale le luci erano accese come le avevo lasciate.
La signora Pappalardo e i suoi tre figli non avevano esalato l’ultimo respiro. Entrai nella camera da letto, mi tolsi le scarpe e ne calzai un paio del Ricciardi, quelle dalle sette suole. Sulle spalle, sopra il cappotto, mi gettai una giacca, poi aprii diversi cassetti asportando una somma imprecisata di denaro e alcuni gioielli d’oro. Misi a soqquadro la casa intera, non so a quale scopo. Non era ancora morto nessuno: il piccolo respirava, la signora si dimenava, la Pinuccia rantolava.
La Pappalardo fissandomi con occhi sbarrati diceva sommessamente: «Disgraziata! Disgraziata! Ti perdono perché Giuseppe ti vuol tanto bene». Poi soggiunse «Ti raccomando i bambini, i bambini…». Mi chiese aiuto la signora, mentre continuava a dimenarsi. Singhiozzava, poi si mise bocconi. Mi diressi verso la camera da letto e passai su di lei con tutto il peso del mio corpo. Essa non parlava più, ma respirava ancora.
Senza rendermi conto di ciò che facevo, rovesciai sul viso delle vittime un liquido, e prima di allontanarmi definitivamente ficcai loro in bocca dei pannolini imbevuti dello stesso liquido. Rimisi quindi le scarpe nel comodino e la giacca al posto in cui l’avevo trovata. Le vittime agonizzavano ancora quando accostai la porta e discesi le scale. Andai a casa, mangiai due uova fritte con grissini. La notte non potei dormire. Il giorno seguente mi recai normalmente al lavoro…»
Rina Fort: il passato e la ricerca di una nuova vita
Nata a Santa Lucia di Budoia, in provincia di Pordenone nel 1915, l’assassina aveva perso il padre durante una passeggiata in montagna, lo aveva visto precipitare in un burrone; il primo fidanzato era morto di tubercolosi poco prima del matrimonio; poi si scoprì affetta da una precoce sterilità. A 22 anni si sposò con un compaesano, Giuseppe Benedet, che già il giorno delle nozze diede segni di squilibrio destinati a degenerare in pazzia, al punto di dover essere ricoverato in manicomio.
Lasciato il Friuli, aveva sperato in una nuova vita nella formicolante Milano dell’immediato dopoguerra. Nel 1945 conobbe Giuseppe Ricciardi, un siciliano proprietario di un negozio di tessuti in via Tenca, divenendone prima compagna di lavoro come commessa, poi amante, senza tuttavia essere a conoscenza – così dichiarò – del fatto che fosse già sposato. Rina aveva sperato davvero in un futuro con l’amante, senza però fare i conti con la superficialità di lui.
Giuseppe aveva moglie e tre figli a Catania, ma la sua storia con la Fort proseguì tranquillamente, finché amici di famiglia non riferirono alla moglie Franca voci preoccupanti sul tradimento del marito. Ricciardi pare avesse l’abitudine di presentare la Fort come la propria moglie a colleghi e amici. Così nell’ottobre del 1946 Franca Ricciardi decise di raggiungere con i figli il marito a Milano.
Rina fu licenziata e trovò lavoro come commessa nella pasticceria di un amico, continuando a frequentare Giuseppe. Però, con l’arrivo della moglie e dei figli dell’uomo, la loro relazione era ormai compromessa e Franca Ricciardi aveva fatto chiaramente capire a Rina che doveva definitivamente rinunciare al suo uomo: pare che la donna le avesse rivelato di essere incinta per la quarta volta, suscitando ulteriore frustrazione nella rivale.
Un delitto passionale, quello di via San Gregorio, che passò alla storia come il primo grande caso di cronaca nera del dopoguerra. La tranquillità ritrovata dopo la guerra da poco finita veniva interrotta da quella violenza che irrompeva nella vita di una famiglia.
Il 10 gennaio 1950 presso la Corte d’Assise di Milano incominciò il processo contro Rina Fort, accusata di strage. La donna, difesa dall’avvocato Antonio Marsico, presenziò a tutte le udienze, sfoggiando una vistosa sciarpa gialla che le valse il soprannome di Belva con la sciarpa color canarino.
Tra un’udienza e l’altra, rilasciò diverse interviste, dipingendosi come assolutamente estranea a fatti tanto efferati e dichiarando a una cronista: «Lei crede che io sia così tranquilla se avessi sulla coscienza quei bambini?». Durante il processo non riconobbe tale Zampulla, che aveva additato come il famoso Carmelo suo presunto complice.
Giuseppe Ricciardi confermò il suo alibi: era a Prato per lavoro. Negò con toni accorati di aver mai preso parte a qualunque progetto omicida nei confronti della propria famiglia. La sua figura non apparve limpida alla Corte, posto che, arrivato sulla scena del delitto, Ricciardi parve più preoccupato di capire quali e quanti preziosi fossero spariti che non affranto di aver perso i propri cari.
A sua volta portato in Questura, si era precipitato, singhiozzando, tra le braccia di Rina Fort gridando «Rina mia!», malgrado la polizia l’avesse informato che la donna era la principale indiziata. Ricciardi si costituì comunque parte civile contro la sua ex amante, atto che gli valse una severa reprimenda da parte del legale del cognato, a sua volta costituitosi parte civile. Il cognato, durante il processo, lo accusò di essere stato un pessimo marito e padre, e di aver maltrattato la moglie. Nel frattempo, Rina Fort fu tradotta dal San Vittore al carcere di Perugia.
Quando – come di rito – al termine del dibattimento, le fu data l’ultima parola, Rina Fort se ne uscì con una sorta di amaro, spregiudicato proclama: «Potrei dire che non ho paura della sentenza. Faranno i giudici. Mi diano cinque anni o l’ergastolo, a che può servire? Ormai sono la Fort!»
Il 9 aprile 1952 fu condannata all’ergastolo, mentre Zampulla e Ricciardi furono prosciolti da ogni accusa, nonostante i rilievi degli inquirenti sulla scena del delitto presentassero numerose lacune e permanessero dubbi che una donna da sola avesse potuto uccidere con tanta violenza. Il ricorso alla Corte di Cassazione, preso in esame il 25 novembre 1953, confermò l’ergastolo.
Rina Fort rifiutò sempre di considerarsi l’unica colpevole della strage. In una lettera al suo avvocato scrisse: «Non è la quantità della pena che mi spaventa. C’è una parte del delitto che non ho commesso e non voglio».
Durante il processo cercò di dimostrare di essere almeno estranea all’uccisione dei tre bambini, ma non fu creduta. Nella sua arringa, l’avvocato di parte civile Armando Radice pronunciò parole di grande impatto:
«Vorremmo crederle, signora. Ma lei in coscienza sa di aver ucciso i bambini. I guanti neri che coprono le sue mani vogliono far tacere la sua coscienza. Perché il guanto nero che fascia la mano è il rifiuto di ciò che quella mano ha fatto.»
Il processo, a causa dell’efferatezza del crimine, ebbe un seguito di pubblico molto grande. Tra i cronisti di cronaca nera che seguirono tutto il dibattimento in aula ci fu lo scrittore Dino Buzzati, che scrisse una serie di articoli per il Nuovo Corriere della Sera, nonostante non se la sentisse più di fare il cronista. La vicenda entrò a tal punto nell’immaginario collettivo italiano da alimentare una fitta serie di pubblicazioni destinate a una diffusione popolare, come i fogli volanti per cantastorie.
La pena
Rina Fort scontò la pena nel carcere di Perugia fino al 1960, quando per motivi di salute venne trasferita nel carcere di Trani, che godeva di condizioni climatiche più favorevoli. Passò poi nel carcere delle Murate a Firenze.
Chiese e ottenne il perdono della famiglia Pappalardo. Dopo trent’anni di reclusione, il 12 settembre 1975 fu beneficiata della grazia dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Nello stesso anno morì Giuseppe Ricciardi, il suo ex amante, che nel frattempo s’era risposato e aveva avuto un altro figlio.
Dal 1975 riprese il cognome Benedet dell’ex marito Giuseppe, e visse una vita riservata a Firenze, presso una famiglia che l’aveva accolta dopo la scarcerazione, facendosi chiamare anche Rina Furlan, fino alla morte per infarto il 2 marzo 1988.
La televisione non esisteva ancora, il caso della Belva di via San Gregorio sarebbe andato in onda tutte le sere. I giornali del pomeriggio fecero da subito edizioni speciali. E i grandi quotidiani come il Corriere della sera impiegarono le migliori firme.
Dino Buzzati, anche se un po recalcitrante, accompagnato da Gaetano Afeltra, seguì tutte le udienze del processo che si celebrò poco tre anni dopo il delitto. Rina Fort venne condannata all’ergastolo.
Nel 1975 il Presidente della Repubblica Giovanni Leone le concesse la grazia dopo 28 anni, nel 1975. La Fort cambiò nome e si trasferì a Firenze dove morì nel 1988.