Napoli, 8 novembre 1975, al civico 78 di via Michelangelo da Caravaggio, una tranquilla strada residenziale del quartiere Fuorigrotta, una squadra di vigili del fuoco si sta calando dal quinto piano del palazzo per raggiungere il balcone dell’appartamento sottostante. La tensione è palpabile e i residenti assistono con angoscia all’operazione. I lampeggianti blu delle vetture di servizio illuminano a intermittenza le pareti esterne dell’edificio.
La famiglia Santangelo svanita nel nulla da più di una settimana. Il loro avvocato, Mario Zarrelli, ha chiamato la polizia per segnalare la loro scomparsa. Sul posto sono arrivati il commissario Lonardo, il vice dirigente Iodice, il commissario Perrini e gli agenti della squadra Mobile. Hanno trovato la porta dell’interno 21 chiusa a chiave e nessuna risposta al campanello o al telefono. Il portiere ha confermato che non riesce a recapitare la posta da giorni. Tutti coloro che conoscono i Santangelo sono preoccupati per il loro destino.
I poliziotti si avvicinano alla porta dell’appartamento, dove sentono i vigili del fuoco che hanno rotto il vetro e si stanno accingendo ad entrare nell’abitazione. Il primo vigile del fuoco che esce dalla porta sembra sconvolto, sul pianerottolo non fa che ripetere la stessa parola: «Sangue… sangue!». Lo spettacolo che sta per apparire sotto gli occhi dei poliziotti è una scena orribile, che li colpirà nel profondo.
Nella casa si nasconde una scena orrenda: quattro cadaveri in avanzato stato di decomposizione, tre persone (un uomo e due donne) e un cane (uno Yorkshire), giacciono sul pavimento macchiato di sangue. Le tracce indicano che i corpi sono stati trascinati da una stanza all’altra. Per entrare, gli agenti sono costretti a indossare le maschere antigas, perché l’odore è insopportabile.
Le vittime sono i residenti dell’appartamento: Domenico Santangelo, 54 anni, rappresentante di vendita, ex capitano di marina mercantile in pensione, la sua seconda moglie Gemma Cenname, 50 anni, ostetrica, la figlia di lui, Angela Santangelo, 19 anni, nata dal primo matrimonio di Santangelo, impiegata e Dick il cagnolino di famiglia.

Delle grida, qualche tonfo e poi il silenzio
Fatta eccezione per l’animale domestico, soffocato con una coperta, le vittime sono state tutte sgozzate con la lama affilata di un coltello da cucina, dopo essere state colpite ripetutamente al capo con un corpo contundente mai ritrovato. I corpi dei due coniugi vengono ritrovati dalla polizia nella vasca da bagno padronale assieme al cadavere del cane, mentre la salma della ragazza, avvolta da un lenzuolo, è stata adagiata dall’assassino sul letto della camera matrimoniale.
Come risulterà dalle indagini, la mattanza si è verificata nella notte tra il 30 e il 31 ottobre 1975 e le vittime sono state uccise in tre differenti ambienti della casa: il Santangelo nello studio, la Cenname in cucina e la ragazza tra la camera da letto e il corridoio.
All’epoca dei fatti, furono esaminate le bottiglie di whisky e di brandy che si trovavano sul mobile-radio nello studio del Santangelo, in relazione anche al fatto che sulla scrivania era stato trovato un bicchiere con un residuo con un residuo giallastro secco. Tuttavia, le impronte su queste due bottiglie non sono mai state identificate nel corso delle indagini.
La casa appariva piuttosto in ordine e quasi sicuramente, secondo gli inquirenti, chi aveva ucciso conosceva bene le vittime. Gli agenti inoltre esclusero da subito il tentativo di rapina. Secondo le prime impressioni degli investigatori, il killer avrebbe agito in seguito ad un forte ed improvviso raptus di follia. Dunque, si potrebbe trattare di un omicidio d’impeto dal quale sarebbe poi scaturita la conseguente eliminazione dei presenti sul luogo del delitto.

Un’altra ipotesi plausibile è invece quella della vendetta premeditata, maturata nel tempo e poi esplosa con indicibile ferocia. Alcune persone residenti nel palazzo hanno affermato di aver udito delle grida e qualche tonfo proprio nella notte tra il 30 e il 31 ottobre, tuttavia, nessuno ha dato peso alla circostanza poiché il tutto è durato poco.
Un assassino intelligente, metodico e calcolatore
Dopo aver avuto l’accortezza di trasportare i cadaveri in altre stanze con le porte ben chiuse, in modo da evitare il propagarsi dell’odore, l’assassino è uscito dalla porta principale, chiudendola a chiave con doppia mandata. Nella vasca da bagno è stata inoltre introdotta anche dell’acqua fredda, in modo da ritardare la decomposizione e la scoperta del delitto. Anche l’uccisione del cane è stata compiuta per sicurezza, per impedire che il suo abbaiare potesse allertare gli altri abitanti dello stabile, e per sbarazzarsi di un testimone indesiderato le cui doti olfattive avrebbero potuto essere cruciali nelle indagini.
La scena del crimine presenta un impronta impressa sulla scia di sangue che parte dalla cucina. Sulla traccia è visibile l’orma di una scarpa di 29 centimetri, l’assassino dunque, indossava calzature di taglia numero 41 o 42. Il profilo dell’assassino è quello di un uomo intelligente, metodico e calcolatore.
Il principale indiziato: Domenico Zarrelli
Chi ha commesso questo efferato delitto? Questo è un mistero che ancora oggi rimane irrisolto. L’unico sospettato è Domenico Zarrelli, nipote della signora Gemma Cenname – una delle vittime – e fratello dell’avvocato che ha dato l’allarme. Zarrelli fu arrestato nel 1976 con l’accusa di aver effettuato il triplice omicidio al termine di una violenta lite scaturita da un prestito negato.

Dal Corriere della sera del 30 marzo 1976: «I carabinieri del nucleo investigativo di Napoli hanno arrestato nella sua abitazione Domenico Zarrelli, 32 anni, fuori corso universitario. L’accusa è pesantissima: triplice omicidio volontario plurimo aggravato nelle persone del capitano di lungo corso Domenico Santangelo, della sua seconda moglie Gemma Cenname e della figlia di primo letto, Angela Santangelo, ventenne. Domenico Zarrelli è il nipote di Gemma Cenname (…) La ricostruzione stabilì che “l’ospite venuto all’ora di cena” si tramutò improvvisamente in uno spietato e feroce assassino.»
Un altro elemento che ha contribuito a incastrare Zarrelli è stata la dichiarazione di un testimone che lo ha riconosciuto come il conducente della macchina di Domenico Santangelo, parcheggiata in via Caravaggio la sera del 30 ottobre 1975. Zarrelli aveva anche una ferita alla mano che gli investigatori hanno ritenuto compatibile con il periodo dell’omicidio. Inoltre, Zarrelli aveva un rapporto difficile con la zia, vittima del delitto.
L’assoluzione di Zarrelli
Nonostante il sospettato abbia il piede diverso dall’impronta lasciata in cucina, viene condannato a vita nel 1978. Dopo cinque anni in carcere, viene assolto per mancanza di prove. La Cassazione, però, ribalta la decisione e il processo si ripete. Anche questa volta, l’imputato ottiene l’assoluzione e nel 1985 la Cassazione la conferma.
Nel corso degli anni Settanta, Domenico Zarrelli è stato dipinto dai media come un «brutto tipo», un individuo aggressivo e incline al crimine. Nel 1988, partecipando alla trasmissione Telefono Giallo condotta da Corrado Augias, Zarrelli dichiara orgoglioso: «Oggi posso dire con gioia che siamo 55.000.000 di abitanti. E bene: 54.999.999 possono aver ammazzato quelle povere tre persone. Anche qualcuno di voi. Io no! perché ho subito tanti di quei processi, mi hanno rivoltato sotto e sopra e hanno cercato in ogni modo di incastrarmi e non ci sono riusciti, perché io ero innocente!»
Zarrelli, che nel 2006 ha ottenuto un risarcimento di un milione e quattrocentomila euro per i danni morali subiti, è stato nuovamente implicato nel caso Santangelo nel 2014, quando la polizia ha trovato le sue tracce biologiche nell’appartamento, in particolare su uno strofinaccio da cucina e su alcuni mozziconi di sigaretta. Tuttavia, Zarrelli non può essere sottoposto a un nuovo processo, in quanto già assolto in via definitiva per lo stesso reato, secondo il principio del «ne bis in idem». Zarrelli indipendentemente da questo delitto, era comunque un frequentatore della famiglia Santangelo.