Borgogna, 1033. La Grande carestia imperversava in Europa già da un anno. Per questo una mattina, quando al mercato di Toumus cominciò a spandersi un buon profumo di arrosto, molti pensarono fosse la fame a giocar loro un brutto scherzo.
Poi videro un uomo che vendeva carne cotta a un banchetto: possibile? Mucche e maiali erano finiti da un pezzo… Ma, avvicinandosi, si accorsero che si trattava di carne umana. Il tale venne arrestato, non tentò neppure di negare la sua colpa: condannato al rogo, fu bruciato e sepolto. Ma di notte un uomo dissotterrò la sua salma, e la mangiò.
Finì bruciato anche lui. Il fatto è narrato dal monaco francese Rodolfo il Glabro, un cronista medioevale che quella carestia la visse in prima persona e che, come i suoi contemporanei, considerava il cannibalismo uno dei profetici segni che annunciava imminenti disastri cosmici.
Ancora oggi questa pratica rappresenta uno dei tabù più sentiti, capace di suscitare orrore e riprovazione: eppure, per motivi diversi, è stata messa in atto dall’uomo in ogni epoca.
I motivi? La fame
Ma perché a una persona che non sia un serial killer può venire in mente di mangiare un proprio simile? La fame è la risposta più scontata, ma non la sola. Il cannibalismo poteva avere un significato simbolico sia in guerra sia durante particolari rituali funebri, per dimostrare, a seconda dei casi, disprezzo per il nemico o volontà di assorbire le qualità migliori del defunto.
Per quale di questi motivi lo facessero, non possiamo saperlo, ma è certo che gli uomini preistorici non disdegnavano la carne dei propri simili. Gli archeologi hanno scoperto che alcuni nostri lontani cugini, dei Neanderthal vissuti 40-45mila anni fa in una caverna a Goyet (Belgio), spolparono ossa umane a morsi, aiutandosi con punte affilate e rompendole poi per succhiarne il midollo, come stessero gustando un ossobuco.
Per l’Homo sapiens mangiare i cadaveri dei padri era un dovere, simile al culto degli antenati
Rituali funebri
Anche i nostri più diretti progenitori, i Sapiens, facevano lo stesso: circa 10mila anni fa, nella grotta di Coves de Santa Maria, sulla costa vicino ad Alicante (Spagna), alcuni di loro pranzarono con i corpi di due adulti e di un bambino. Sulle ossa rimaste, gli esperti hanno notato segni evidenti di morsi, di strumenti da taglio, di cottura e di martellamento. La fame o il bisogno di cibo, però, pare non c’entrassero: piuttosto si sarebbe trattato di un rituale funebre.
L’endocannibalismo, una speciale modalità di consumo della carne umana di natura non aggressiva, costituiva in passato una forma particolare di antropofagia. Le vittime infatti venivano mangiate proprio in virtù della loro appartenenza alla tribù.
In particolare la patrofagia, cioè il consumo interno al nucleo familiare delle carni del padre defunto, triturate e mescolate in una particolare bevanda, costituiva un dovere da parte dei vivi, una forma di rispetto sociale simile a un autentico culto degli antenati, diffuso in Africa e Sud America ancora due secoli fa.

Vendetta e smaltimento
Esistevano comunque altre meno nobili occasioni durante le quali gli antichi erano soliti portare in tavola carne umana: gli Aztechi, per esempio, si cibavano dei corpi dei prigionieri di guerra dopo averli sacrificati alle divinità. Lo facevano sia per vendicarsi sia per acquisirne il coraggio e la forza. Ma anche perché sarebbe stato uno spreco buttar via tanta carne: così se la mangiavano con fiori di zucca e sale oppure in brodo, con grani di mais.
A volte la vendetta ispirò anche le truculente fantasie degli europei medioevali, in un mondo in cui la tortura brutale era una pratica diffusa e prevista dai codici penali, il cannibalismo, che non era incluso nei rituali ufficiali di giustizia, aveva lo scopo di fare scempio del corpo del nemico, infierendo sulla salma con un supremo oltraggio. L’antropofagia era il culmine simbolico del rituale.
Un po come quando nel 1098, durante la prima crociata, alcuni distaccamenti di soldati cristiani razziarono la città di Marra (l’odierna Ma’arrat al-Nu’man, in Siria): secondo quanto racconta il cronista Rodolfo di Caen, i soldati di Cristo bollirono per cena gli adulti e misero sullo spiedo i bambini.
Non andò meglio al rappresentante del popolo napoletano Giovan Vincenzo Starace: durante la carestia del 1585, all’epoca del vicereame spagnolo, venne accusato dagli insorti di non aver fatto fronte al mancamento del pane e diventò cibo per la folla impazzita, che lo squartò e lo divorò.
A James Fort, nel 1609, i coloni inglesi cucinarono ratti, cani, cavalli, gli stivali… e poi i loro connazionali
Carestie e assedi
Eppure, se dovessimo tracciare il profilo del tipico mangiatore di carne umana medioevale, avremmo delle sorprese: non si trattava solo di uomini malvagi, folli o crudeli, ma anche di persone normali, spinte a cibarsi dei propri simili più che altro dallo stomaco vuoto. Buoni cristiani, cavalieri e re, giovani donzelle, cittadini e ammalati, bambini, eremiti e guerrieri: erano tutte potenziali vittime, tutti potenziali carnefici.
Quando i morsi della fame si facevano insopportabili, il confine tra mundus e immundus tendeva a scomparire. Dal mangiare gli immunda animalia, si arrivava all’atto immondo per eccellenza: il cibarsi di carne umana.
Insomma: bastava una carestia e chiunque poteva trasformarsi in uno spietato cannibale. In questo caso, le vittime erano di preferenza stranieri, pellegrini o viandanti, uomini o donne esterni alla comunità. Secondo la discutibile etica medioevale, questa era ritenuta la forma meno grave di antropofagia, dal momento che non coinvolgeva vicini di casa, conoscenti e compaesani.
Ovviamente, però, durante gli assedi non era possibile scegliere: così, nel 410 d.C., gli abitanti dell’antica Roma, accerchiata dai barbari del re dei Visigoti Alarico, si lasciarono andare ad atti di cannibalismo fra concittadini.

Il caso James Fort
Nel 1609, un fatto simile accadde anche Oltreoceano, a James Fort (oggi Jamestown), il primo insediamento stabile inglese in America. La Grande fame era esplosa due anni dopo l’arrivo dei coloni: durante questa terribile carestia, cui sopravvisse poco più di un decimo della popolazione, dopo essersi cibati di ratti, cani, scoiattoli e serpenti e aver divorato persino i cavalli, la pelle dei finimenti e quella dei propri stivali, gli inglesi cominciarono a mangiare i cadaveri dei propri connazionali.
Per prima cosa estraevano e ingoiavano il cervello, per non farlo andare a male, poi facevano a pezzi il corpo e scarnificavano le ossa una alla volta, partendo da braccia e gambe, fino ad arrivare alle guance. Con un po di lavoro in più, riuscivano a staccare anche la lingua. Ma ci fu persino un uomo che, invece di aspettare un cadavere fresco, decise di uccidere sua moglie incinta: la fece a pezzi e la mise sotto sale per mangiarla un po alla volta.
Nella mentalità antica, l’omicidio cannibalico fra i membri della stessa famiglia era il caso più grave, ancora di più se commesso dalla madre sui figli: minava dall’interno il nucleo fondamentale dell’organizzazione sociale. Eppure la condanna morale non bastava: secondo lo storico Giuseppe Flavio, nel 70 d.C., mentre l’esercito romano assediava Gerusalemme, una donna, Maria, aveva mangiato suo figlio, prossimo alla morte per inedia.
E della stessa colpa, racconta il Secondo libro dei Re nell’Antico Testamento, si macchiarono due donne nell’VIII secolo a.C., durante l’assedio di Samaria: stremate dalla fame, si accordarono per uccidere, cucinare e mangiare i propri figli (anche se una delle due, sfamata dal bambino dell’altra, nascose il proprio per non fargli fare la stessa fine).
Orrore recente
Nefandezze d’altri tempi? Purtroppo no: meno di un secolo fa, durante la carestia russa del 1921-1923 e in Ucraina tra il 1932 e il 1933, si contarono migliaia di casi di cannibalismo e un numero indefinito di bambini rapiti, uccisi e venduti a tranci come bestie da macello. Anche durante l’assedio di Leningrado (1941), ogni mese finirono in carcere circa mille cannibali, disposti a tutto pur di sopravvivere alla fame. Altro che Hannibal Lecter!
Poteri della carne
Il cannibalismo? Fa bene alla salute. Così pensavano, agli inizi del Novecento, due medici francesi, secondo cui l’organismo umano si mantiene in migliore stato di salute se si nutre di cellule simili alle proprie. La teoria è negata dai dati moderni, ma l’uso di parti del corpo o della carne umana in medicina ha sempre avuto un certo seguito.
Nel Seicento, la mummia, la carne umana essiccata, era considerata un farmaco potentissimo. Per prepararla, secondo la ricetta del medico modenese Carlo Lancillotti occorrevano «cadavere umano (a piacimento), mirra, aloe, spirito di vino ottimo». Ed era meglio se il corpo, che poi doveva essere tagliato a fette ed essiccato sulla stufa, fosse stato «di colore e di pelo rosso, fresco, giovane, senza alcuna putredine, morto di morte violenta e non di alcuna infermità».
Queste credenze non sono del tutto passate di moda: in Tanzania vengono considerati magici gli organi degli albini; la medicina tradizionale cinese attribuisce particolari proprietà curative al fegato, al cervello e ai feti; mentre la setta indù degli Aghori, in India, consuma la carne dei cadaveri abbandonati sulle acque del Gange per allontanare la vecchiaia.

