L’eterna tragedia dell’uomo che lotta per la verità e la libertà e mille volte viene ucciso dalla società degli uomini ingiusti. Questa eterna tragedia che si ripete in una fredda sera di gennaio, mentre le strade si svuotano e un uomo insegue i suoi sogni.
È la sera del 5 gennaio 1984, da poco ha smesso di piovere, l’aria è umida e pesante, i negozi chiusi, i muri pieni di manifesti abusivi dell’ultima campagna elettorale. Giuseppe Fava, per tutti Pippo, esce dalla redazione del suo giornale, al piano terra di un anonimo palazzo di Sant’Agata li Battiati, alla periferia di Catania; sale sulla macchina, avvia il motore, e si dirige al Teatro Stabile per andare a prendere la nipotina che recita in Pensaci, Giacomino!
Giunge alla circonvallazione, entra in città. Non si avvede delle due macchine che lo stanno tallonando, percorre strade e stradine, alle ventidue è in via dello Stadio, a pochi metri dal teatro. Da fuori si riescono a sentire gli applausi. Pippo trova un posteggio, ma non ha il tempo di scendere dalla sua Renault 5 che viene raggiunto da cinque proiettili calibro 7,65 al collo e alla nuca.
Giuseppe Fava nasce a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il 15 Settembre del 1925. Dopo gli studi liceali, si trasferisce a Catania nel 1943 e si laurea in giurisprudenza. Nel 1952 diventa giornalista professionista. Inizia così a collaborare a varie testate regionali e nazionali, tra cui Sport Sud, La Domenica del Corriere, Tuttosport e Tempo illustrato di Milano.
Nel 1956 viene assunto dall’Espresso sera, di cui è stato caporedattore fino al 1980. Scriveva di vari argomenti, ma i suoi lavori migliori furono una serie di interviste ad alcuni boss di Cosa nostra, tra cui Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Dopo aver lasciato l’Espresso sera, Fava si trasferisce a Roma, dove inizia a condurre una trasmissione radiofonica su Radiorai, ma continua a scrivere collaborando con Il Tempo e il Corriere della sera.
Giornale del Sud
Nella primavera del 1980 Pippo Fava ritorna in Sicilia da Roma per dirigere il Giornale del Sud. Inizialmente accolto con scetticismo, Fava riesce a creare un gruppo redazionale ex novo, affidandosi a giovani ed inesperti cronisti improvvisati, i «carusi». Fece del Giornale del Sud un quotidiano coraggioso e spregiudicato.
L’11 ottobre 1981 pubblica Lo spirito di un giornale, un articolo in cui chiarisce le linee guida che fa seguire alla sua redazione: basarsi sulla verità per «realizzare giustizia e difendere la libertà». Fu in quel periodo che si riuscì a denunciare le attività di Cosa nostra, attiva nel capoluogo etneo soprattutto nel traffico della droga.
Per un anno il Giornale del Sud continua senza soste il suo lavoro. Tra le inchieste che porta avanti c’è la ferrea battaglia contro l’installazione di una base missilistica a Comiso (poi effettivamente realizzata) e la sua presa di posizione a favore dell’arresto del boss Alfio Ferlito, principale avversario di Santapaola, ucciso poi il 16 giugno 1982 con tre carabinieri, che lo stavano scortando in carcere da Enna a Trapani, nella cosiddetta strage della circonvallazione di Palermo.
«A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?»
Ma ben presto Fava è costretto a lasciare anche questo giornale dopo l’arrivo di una nuova cordata di imprenditori: Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Aleppo e Salvatore Costa, apparentemente persone qualunque volte solo al business editoriale ma che ben presto si rivelarono amici stretti dei boss di Cosa Nostra catanesi e che avevano il compito di licenziarlo. Successivamente si scoprì che Lo Turco frequentava il boss Nitto Santapaola, e che Graci ci andava a caccia.
Inoltre erano iniziati gli atti di forza contro la rivista. Venne organizzato un attentato, a cui scampò, con una bomba contenente un chilo di tritolo. In seguito, la prima pagina del Giornale del Sud che denunciava alcune attività di Ferlito fu sequestrata prima della stampa e censurata, mentre il direttore era fuori.
Di lì a poco Fava venne licenziato. I giovani giornalisti occuparono la redazione, ma a nulla valsero le loro proteste. Per una settimana rimasero chiusi nella sede, ricevendo pochi attestati di solidarietà. Dopo un intervento del sindacato, l’occupazione cessò. Poco tempo dopo, il Giornale del Sud avrebbe chiuso i battenti per volontà degli stessi editori.
Rimasto senza lavoro, Fava si rimbocca le maniche e con i suoi collaboratori fonda una cooperativa, Radar, per poter finanziare un nuovo progetto editoriale. Praticamente senza mezzi operativi (solo due rotative Roland di seconda mano acquistate grazie alle cambiali) ma con molte idee, il gruppo riesce a pubblicare il primo numero della rivista nel novembre 1982. La nuova rivista, con cadenza mensile, si chiama I Siciliani.
I Siciliani
Nella copertina del primo numero campeggiano i quattro maggiori imprenditori catanesi, i «quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa», come titola il lungo articolo in cui Fava descrive il sistema di potere che tiene come in una morsa la sua città. Molti sostengono che proprio con quell’articolo Fava abbia firmato la sua condanna a morte.
Si trattava di un’inchiesta-denuncia sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci (agrigentino di nascita), Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, e di altri personaggi come Michele Sindona. Senza giri di parole, Fava collega i cavalieri del lavoro con il clan del boss Nitto Santapaola.
Dopo questa sua denuncia Fava inizia a essere sempre più isolato anche dagli stessi intellettuali. Aveva visto lontano, ben prima che il resto del mondo fosse disposto ad ammetterlo che il potere mafioso non si fermava ai confini della provincia palermitana. E scavava. E faceva i nomi. E chiedeva conto.
Si rendeva anche conto di rischiare. Si era comprato una pistola, sentendosi nel mirino, anche se dicono che abbia compreso fino in fondo il tenore delle minacce solo quando gli arrivarono a casa in dono ricotta e champagne. Un messaggio in codice in cui leggere una condanna a morte con brindisi.
«Un giornale che ogni mese sarà anche un libro da custodire. Libro della storia che noi viviamo. Scritto giorno per giorno»
I Siciliani, era diventato da subito una delle esperienze decisive per il movimento antimafia. Le inchieste della rivista diventarono un caso politico e giornalistico: gli attacchi alla presenza delle basi missilistiche in Sicilia, la denuncia continua della presenza della mafia, le piccole storie di ordinaria delinquenza.
Nell’anno successivo, Mario Rendo, Salvo Andò e Gaetano Graci cercarono di comprare il giornale per poterlo controllare, ottenendo solo rifiuti. I Siciliani continuò ad essere una testata indipendente. Continuò a mostrare le foto di Santapaola con politici, imprenditori e questori. Immagini conosciute dalle forze di polizia ma non usate contro i collusi.
Il 28 dicembre 1983 rilascia la sua ultima intervista a Enzo Biagi nella trasmissione Film Story in onda sulla Televisione della Svizzera Italiana , sette giorni prima del suo assassinio. Raccontava Fava:
«Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante…» (I mafiosi stanno in Parlamento).
I funerali
Inizialmente, l’omicidio viene etichettato come delitto passionale, sia dalla stampa sia dalla polizia. Si disse che la pistola utilizzata non fosse tra quelle solitamente impiegate in delitti di stampo mafioso. Si iniziò anche a cercare tra le carte de I Siciliani, in cerca di prove: un’altra ipotesi era il movente economico, per le difficoltà in cui versava la rivista.
Anche le istituzioni, in primis il sindaco Angelo Munzone, diedero peso a questa tesi, tanto da evitare di organizzare una cerimonia pubblica con la presenza delle cariche cittadine, arrivò persino a dire che la pista mafiosa fosse impossibile in quanto «a Catania la mafia non esiste». L’onorevole Nino Drago chiese una chiusura rapida delle indagini perché «altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al nord».
A ciò ribatterono l’alto commissario Emanuele De Francesco, che confermò che «la mafia è arrivata a Catania» con certezza, e il questore Agostino Conigliaro, sostenitore della pista del delitto di mafia.
Il funerale si tenne nella piccola chiesa di Santa Maria della Guardia e poche persone diedero l’ultimo saluto al giornalista: furono soprattutto giovani e operai ad accompagnare la bara. Inoltre, ci fu chi fece notare che spesso Fava scriveva dei funerali di stato organizzati per altre vittime della mafia, a cui erano presenti ministri e alte cariche pubbliche: il suo, invece, fu disertato da molti, gli unici presenti erano il questore, alcuni membri del PCI e il presidente della regione Santi Nicita.
«Io ho un concetto etico di giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo» (Pippo Fava).
Le indagini e i processi
Pippo Fava sembra dar fastidio anche da morto. Si vuole evitare che diventi un simbolo. Comincia così una vera e propria campagna di delegittimazione in cui si mescolano, con perizia, verità e menzogne. Dieci anni di indagini, viziate da molti depistaggi, non producono risultati, se non il tentativo di delegittimare la figura della vittima. Fava era un femminaro, lo sanno tutti, e le ragioni del delitto vanno cercate lì, altro che mafia.
Soltanto nel 1994, arriva la svolta. Un pentito, Maurizio Avola, comincia a parlare e si autoaccusa dell’omicidio Fava. Racconta di aver fatto parte del gruppo di fuoco permettendo così di riaprire il caso. Da quel momento in poi la magistratura catanese inizia a ricostruire le tracce di ciò che era realmente accaduto.
Dieci anni di accuse, di insulti, di fango, a cui la famiglia e gli amici hanno dovuto resistere senza segnali di solidarietà e di speranza. Dieci anni in cui a infangare la sua memoria non era Cosa Nostra ma un territorio che non voleva saperne di vedere tracce di mafia nella propria imprenditoria. Meglio continuare a sfregiare la memoria di Pippo Fava con le più banali insinuazioni. Meglio nasconderlo all’opinione pubblica nazionale, nascondere i suoi libri, il suo operato.
Nel 1998 si conclude a Catania il processo denominato Orsa Maggiore 3 dove per l’omicidio di Giuseppe Fava vengono condannati all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola.
Nel 2001 le condanne all’ergastolo vengono confermate dalla Corte d’appello di Catania per Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, accusati di essere stati i mandanti dell’omicidio, mentre sono stati assolti Marcello D’Agata e Francesco Giammuso che in primo grado erano stati condannati all’ergastolo come esecutori dell’omicidio. L’ultimo processo si è concluso nel 2003 con la sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato Santapaola ed Ercolano all’ergastolo e Avola a sette anni patteggiati.
Sono stati due i pentiti protagonisti del processo: Luciano Grasso e Maurizio Avola. Quest’ultimo, in particolare, spiegò che Santapaola organizzò l’omicidio per conto di alcuni «imprenditori catanesi» e di Luciano Liggio: nessuno di questi però è stato condannato come mandante.
Emerge che quando Nitto Santapaola decide che è tempo di uccidere Fava, pronuncerà semplici e inequivocabili parole di condanna: «Questo noi dobbiamo farlo non tanto o non soltanto per noi. Lo dobbiamo ai cavalieri del lavoro perché se questo continua a parlare come parla e a scrivere come scrive, per i cavalieri del lavoro è tutto finito. Per loro e per noi».
L’omicidio di Giuseppe Fava non impedì alla sua rivista, I Siciliani, di continuare ad uscire. Il giorno dopo la sua morte la redazione riaprì come se nulla fosse successo. Anzi, la sua morte servì a trovare nuova gente che collaborasse. Orioles raccontò che quel giorno si presentò un gruppo di giovani di Sant’Agata li Battiati iscritti alla FGCI pronti a distribuire il giornale.
Per tre anni la rivista portò avanti la sua campagna antimafia, malgrado le crescenti difficoltà, e contribuì ad animare varie manifestazioni a cui partecipavano persone di qualsiasi schieramento politico.