Nella primavera del 1945 in Europa gli dèi erano caduti da un pezzo. Chi aveva aspirato a prenderne il posto – Hitler e Mussolini in testa – si accingeva a fare la stessa fine. Berlino bruciava sotto i colpi dell’Armata Rossa e Milano capitolava di fronte agli Alleati e ai partigiani.
E mentre la Germania faceva i conti con l’evidenza della sconfitta, il resto del mondo li faceva con la ferocia dell’Olocausto. Le immagini dei reportage di guerra erano inequivocabili: uomini come topi, segregati in campi di sterminio.
Città coperte da tonnellate di bombe. Intere nazioni in ginocchio pagavano il prezzo di ideologie sanguinarie. È in quei mesi di inizio ’45 che molti gerarchi nazisti cercarono di mettersi in salvo, dandosi alla clandestinità nel fuggi fuggi generale.
Il processo di Norimberga iniziò il 18 ottobre 1945. Per gli storici, oltre 50 criminali nazisti e centinaia di collaborazionisti mancavano all’appello.
Dall’Europa Centrale e dalla Croazia centinaia di migliaia di profughi scendevano come in un esodo biblico verso l’Italia e la Spagna, meta strategica per la fuga. Molti tedeschi con le mani sporche di sangue si unirono a loro: almeno 50 criminali di guerra e oltre 300 quadri militari del Reich riuscirono così a farla franca.
I loro nomi sono noti: Ante Pavelić, il capo degli ustascia croati; Erich Priebke, boia delle Ardeatine; Josef Mengele, il sadico dottor morte; Adolf Eichmann, organizzatore della soluzione finale; Klaus Barbie, il boia di Lione; e molti altri.
Tutti si rifecero una vita, chi in Sud America, chi in Medio Oriente, chi in Australia e chi addirittura in Europa o negli Stati Uniti da collaboratore della CIA, del KGB o della Stasi. Come fu possibile? E il nostro Paese che ruolo giocò in questa partita? Gli archivi desecretati in questi anni hanno permesso di fare luce.

Operazione verità
La risposta però non è univoca. Ed è bene, prima di addentrarsi nella complessa vicenda, sgombrare il campo da alcune delle più clamorose bufale che ancora circolano sul tema: nessun alto dirigente nazista nel ’45 scappò a bordo di improbabili sommergibili attraverso l’Atlantico. Men che meno Hitler.
Sulle spiagge del Sud America non arrivarono mai casse stracolme d’oro sottratto agli ebrei, né furono costruiti nascondigli segreti sulle Ande. Anche il famoso Piano Odessa – presunta operazione pianificata per agevolare la fuoriuscita dei criminali in vista della rinascita di uno Stato neonazista – va maneggiato con cura.
Non ci fu infatti niente del genere. Piuttosto, stando alle ricostruzioni, si trattò di una rete di fuga resa possibile da connivenze di uomini dello Stato e della Chiesa. Molti di loro agirono spaventati dal cosiddetto pericolo rosso, il nuovo nemico comunista.
Altri da affinità elettive nei confronti dei nazifascisti, maturate negli Anni ’30. Le stesse affinità che li rendevano propensi ad accogliere i tedeschi e a respingere gli ebrei. Campione di ospitalità fu l’argentino Juan Perón, che accettò fino a 5mila nazisti. In buona compagnia con altri capi di Stato sudamericani: quello del Brasile ne ospitò quasi 2mila. Il Cile poco più di 500, seguito da Uruguay e Paraguay. E chi non attraversava l’Atlantico, andava in Sudafrica, in Medio Oriente e in Australia.

La rete
I servizi segreti americani chiamarono Rat line (linea dei topi) il sistema di vie di fuga europee percorse da nazisti e fascisti per mettersi in salvo. La tecnica era questa: nelle settimane del crollo del Reich chi riusciva si metteva in clandestinità. Poi, con il tempo, prendeva contatti con uomini conniventi, grazie ai quali raggiungeva basi sicure, spesso con l’appoggio di monasteri, dall’Austria all’Italia.
Nel frattempo i gerarchi in fuga ottenevano una nuova identità e con l’appoggio di servizi segreti stranieri espatriavano verso Paesi con regimi di destra e anticomunisti. A gestire quel traffico erano in molti. Uomini dello Stato, della Chiesa e della Croce Rossa.
Il più attivo era un prete croato, padre Krunoslav Dragonovich, dal 1945 impiegato all’Istituto croato del Collegio di San Girolamo degli Illirici, a Roma. La sua attività era nota agli americani e le vie di fuga che poteva garantire erano ritenute sicure ed efficienti.
Il flusso raggiunse il suo apice tra il 1948 e il 1949 e coinvolse una cinquantina di militari più un cospicuo numero di alti quadri del Reich, nonché migliaia di collaborazionisti francesi, belgi, croati, sloveni, ucraini e ungheresi, nonché fascisti di Salò.
Il tutto in un contesto caotico. L’Italia, stremata dalla guerra e incapace di far fronte alla nuova emergenza, dopo la guerra si trovò circa 12 milioni di profughi desiderosi di una patria e di un’identità. Nel giugno del 1945, al Brennero per esempio, le amministrazioni locali e quella statale, insieme alle associazioni e agli enti internazionali, cercarono di porvi rimedio.
Si aprirono campi di identificazione dove prima c’erano i campi di concentramento nazifascisti. Tantissimi profughi vi rimasero per anni, in attesa di un’identità certa. Molti erano sospettati di essere nazisti in fuga, oppure spie di regimi comunisti, ritenuti potenzialmente pericolosi oltre che mangiapane a tradimento.
Per affrontare la situazione intervennero la Croce Rossa internazionale e la Pontificia commissione di assistenza. Quest’ultima si occupò del sostegno spirituale dei cattolici, la Croce Rossa di quello materiale di tutti profughi, che includeva la generalizzata mancanza di documenti. Il problema, però, fu che quell’aiuto fu dato a tutti indistintamente: criminali e non.

Travestimenti
Avvenne così che uno dei principali responsabili dell’Olocausto, Adolf Eichmann, in abiti da montagna con in testa un cappello tirolese, riuscì a passare il Brennero con l’aiuto di traghettatori di frontiera, che lo consegnarono al parroco di Vipiteno.
Qui, con il beneplacito del vicario generale della diocesi di Bressanone (un filotedesco che non aveva digerito l’annessione del Sudtirolo all’Italia) ricevette un nuovo nome. Il suo rifugio fu poi un chiostro dei francescani nella provincia di Bolzano, finché a Merano ottenne documenti falsi e, a Genova, un permesso di libero sbarco.
Il capitano delle SS Alois Brunner è morto a Damasco nel 2010. Collaborò con i dissidenti del regime di Hafez Assad, padre di Bashar al-Assad.
Non andò peggio a Josef Mengele, il sadico medico di Auschwitz che finì i suoi giorni in Sud America, senza mai dover rendere conto delle atroci torture compiute su donne e bambini. Le modalità di fuga furono simili a quelle di Adolf Eichmann: dopo alcuni anni in Baviera, ottenne, con modalità mai chiarite, documenti falsi a nome di Helmut Gregor, nato nel comune di Termeno (Bolzano), di professione meccanico.
Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, si dotò invece di documenti e identità nuove diventando Otto Pape, «lettone, direttore d’albergo», con doppia residenza a Roma e Bolzano. Trascorse quasi mezzo secolo a San Carlos de Bariloche (Argentina) con la moglie e tornò più volte in Italia prima di essere arrestato.
Il sistema di fuga, per lui e gli altri, era sempre lo stesso: trovare figure amiche in possesso di passaporti falsi. E con quelli fuggire. I documenti recentemente desecretati hanno permesso di ricostruire tipologie e persino prezzi dei passaporti: i nazisti pagavano fino a 1.000 scellini austriaci per andarsene il più in fretta possibile, ma c’era chi otteneva i documenti addirittura gratis.

Gli archivi hanno permesso di capire anche chi fu a coprire i criminali di guerra: oltre al già citato Krunoslav Dragonovich e al vicario generale della diocesi di Bressanone Alois Pompanin, fu attivo il vescovo austriaco Alois Hudal, guida spirituale della comunità tedesca in Italia e parroco della chiesa di Santa Maria dell’Anima, a Roma.
L’austriaco Simon Wiesenthal, sopravvissuto all’Olocausto, dedicò la vita a raccogliere informazioni sui nazisti in latitanza. Fu essenziale per la cattura di Eichmann.
Con lui collaborò il vescovo argentino Augustin Barrère. Ma il capo della Chiesa cattolica, Pio XII, era al corrente? La questione è dibattuta. In realtà, al di là di singoli sacerdoti, che non lavoravano per il Vaticano, ma per altre associazioni e comitati della Chiesa cattolica, non c’è prova di una strategia vaticana di salvare alti funzionari nazisti.
In genere si trattava di preti tedeschi che aiutavano nazisti in fuga. Erano in gioco reti di relazioni personali preesistenti e sentimenti di affinità politica: non dimentichiamo che molti sacerdoti avevano sostenuto il fascismo e il nazismo.
La Santa Sede si sarebbe spesa per offrire una via di fuga a profughi sfollati. Non in quanto nazisti, ma perché profughi. Lo stesso fece la Croce Rossa. È questa oggi l’opinione dominante nelle ricostruzioni, sebbene non sia condivisa da tutti. Vincitori e vinti.
Sono tutti d’accordo invece nel ritenere che nessuna delle competenze naziste in fatto di torture e tecniche di pressione psicologica sia andata perduta. Gli uomini della Gestapo nell’immediato dopoguerra vennero arruolati di nascosto da moltissimi Stati.

Chi non divenne uomo della CIA entrò nel KGB, nella Stasi della Germania Est o in altri servizi segreti. A confermarlo, nel 2014, è stato anche il tedesco Der Spiegel. Il settimanale ha pubblicato i contenuti di alcuni documenti desecretati, che confermano questa scomoda (ma risaputa) verità: il padre della Germania postbellica e dell’Europa unita – il leader democristiano Konrad Adenauer – era a conoscenza dell’arruolamento di nazisti nei servizi di sicurezza tedeschi del Dopoguerra e in quelli statunitensi.
Come avrebbe detto Lenin, spesso «il cinismo non sta nelle parole che descrivono la realtà, ma nella realtà stessa».