La morte di Wilma Montesi continua a rappresentare uno dei più enigmatici misteri dell’Italia del secondo dopoguerra, tuttora privo di una soluzione definitiva. Questo caso si rivelò il catalizzatore di uno scandalo che travolse la scena politica degli anni Cinquanta, generando un notevole clamore mediatico. L’ampia attenzione della stampa fu alimentata dal coinvolgimento, nelle indagini sul presunto crimine, di diversi personaggi influenti dell’epoca.
Torvaianica, 11 aprile 1953. È la vigilia di Pasqua e Fortunato Bettini, un manovale, decide di sfruttare la giornata dal clima mite per fare colazione sulla spiaggia del litorale romano. Tuttavia, la tranquillità del momento svanisce rapidamente quando scorge un corpo femminile disteso sulla riva. La giovane donna è senza calze né reggicalze, con la testa parzialmente immersa nell’acqua. Si tratta di Wilma Montesi, una ventunenne scomparsa due giorni prima.
Wilma, figlia di un falegname, è descritta come una ragazza di straordinaria bellezza che nutre l’ambizione di affermarsi nel mondo del cinema e dello spettacolo. A breve avrebbe dovuto sposare il fidanzato, un agente di polizia in servizio a Potenza. La sua quotidianità è caratterizzata da una vita semplice e ordinaria, simile a quella di molte altre giovani della capitale. Proprio questa normalità rende il mistero legato alla sua scomparsa particolarmente avvincente, attirando sin da subito l’attenzione e l’interesse di milioni di persone in tutta Italia.
Le indagini rivelano che Wilma, la sera del 9 aprile del lontano 1953, si era recata a Ostia in treno senza informare la sua famiglia. I familiari non vengono avvisati del decesso della ragazza, venendone a conoscenza solo tramite i giornali. Il ritrovamento suscita grande interesse mediatico, e la stampa dedica ampi articoli alla vicenda, nonostante le autorità abbiano vietato ai reporter di accedere alla camera mortuaria dove è custodito il corpo della giovane.
Attraverso un espediente, un cronista del Messaggero riuscì a entrare nel luogo e osservare il corpo. La descrizione pubblicata il giorno seguente sulle pagine del quotidiano romano consentì al padre della giovane, Rodolfo Montesi, di recarsi per procedere al riconoscimento della salma. Interrogata, la madre afferma con fermezza che la figlia non si sarebbe mai tolta il reggicalze di sua iniziativa: per lei, esiste una sola spiegazione. Tra le lacrime, ipotizza che la ragazza possa essere svenuta per il terrore di fronte a un aggressore, il quale avrebbe poi approfittato della situazione, rimuovendole l’indumento e commettendo la violenza.
La sorella riferisce che Wilma soffriva di un eczema al tallone e che, presumibilmente nel tentativo di alleviarne il bruciore, potrebbe aver immerso il piede in acqua salata. Gli specialisti dell’Istituto di Medicina Legale di Roma, dopo un’accurata analisi del corpo della vittima, confermano questa ipotesi, fornendo un’interpretazione delle cause che hanno portato al decesso di Wilma Montesi:
«La giovane», dice uno di loro, «è svenuta per un malore non meglio identificato mentre faceva un pediluvio e, cadendo nell’acqua, è annegata. La corrente marina può aver poi trascinato il corpo per venti chilometri, da Ostia a Torvaianica, anche se l’acqua trovata nei polmoni è poca». «Nessuno pensi», aggiunge un altro medico, «che sia stata violentata perché è ancora vergine».
Senza dubbio è una morte piuttosto insolita, ma la polizia ritiene plausibile l’ipotesi dell’incidente e archivia il caso, ignorando alcune incongruenze. La stampa, al contrario, continua a nutrire dubbi.
A inaugurare le polemiche fu il periodico monarchico napoletano Il Roma, con un articolo intitolato «Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?». Nella pubblicazione del 4 maggio, Riccardo Giannini, autore del pezzo, ipotizzava che la giovane fosse stata assassinata da figure di rilievo nell’ambito politico e suggeriva l’esistenza di un complotto volto a celare l’identità dei veri colpevoli.
Nel 1953, la Democrazia Cristiana è il partito al governo, mentre il Partito Comunista Italiano rappresenta la principale forza d’opposizione. Proprio un giornale vicino al PCI, “Vie Nuove”, suscita ampio clamore il 24 maggio di quell’anno grazie a un articolo firmato da Marco Cesarini Sforza. L’autore suggerisce che un individuo emerso nelle indagini, fino a quel momento identificato come il «biondino» e presumibilmente legato alla politica, potrebbe fornire informazioni cruciali sulla morte della giovane Montesi.
Piero Piccioni: Il Biondino
L’appellativo «biondino» era stato attribuito a uno degli indagati dal quotidiano «Paese Sera» in un articolo datato 5 maggio, nel quale si riportava che tale individuo aveva consegnato alla questura gli indumenti mancanti appartenenti alla giovane assassinata. Si scoprirà pochi giorni dopo che il «biondino» in questione corrisponde a Piero Piccioni, nato nel 1921, figura di spicco nel panorama musicale italiano, celebre nell’ambiente della Rai, del cinema, del jazz e del jet set internazionale, conosciuto artisticamente con il nome di Piero Morgan. Piccioni, oltre a essere il fidanzato dell’affermata attrice Alida Valli, è soprattutto il figlio di Attilio Piccioni, personalità di rilevanza politica di notevole peso: ministro degli Esteri, vicepresidente del Consiglio e candidato designato alla successione di Alcide De Gasperi nella leadership della Democrazia Cristiana, il cui nome genera un evidente timore nel contesto sociale e istituzionale.

Piero Piccioni appare del tutto estraneo ai fatti, dichiarando di non essere a conoscenza di questa vicenda. Il giornalista che lo ha coinvolto nella questione subisce una querela per diffamazione, accusato di aver adottato un approccio sensazionalistico nell’esposizione dei fatti, e si ritrova persino sotto la minaccia di licenziamento da parte della stessa testata per cui lavora. Pressato dalle circostanze, è costretto a ritrattare le affermazioni precedentemente pubblicate, ammettendo che non vi è alcuna indagine sul giovane e chiedendo scusa attraverso un articolo sul proprio giornale.
L’ipotesi dei «capocottari»
Lo scandalo pare affievolirsi temporaneamente, ma si riaccende con vigore nel mese di ottobre, quando Silvano Muto, direttore del periodico scandalistico «Attualità», pubblica un articolo riguardante Adriana Bisaccia, una ventitreenne che aspira a intraprendere la carriera di attrice e che si sostiene economicamente lavorando come dattilografa. La giovane rilascia una testimonianza inquietante, in cui afferma di aver partecipato, insieme a Wilma Montesi, a una controversa serata a luci rosse presso Capocotta, nell’area di Castel Porziano, situata non lontano dal luogo in cui Wilma venne ritrovata.
Adriana sostiene che la serata fosse frequentata da figli dell’aristocrazia e da giovani appartenenti all’élite politica. Durante l’evento, secondo il suo racconto, Wilma avrebbe assunto un mix di droga e alcol che ne avrebbe causato il decesso per overdose. Successivamente, i partecipanti avrebbero deciso di trasportare il corpo senza vita della giovane fino alla spiaggia di Torvaianica, così da scongiurare ogni possibilità di collegamento diretto tra ciò che era accaduto e i presenti.
Adriana attribuisce la responsabilità della morte di Wilma a Piero Piccioni e imputa al marchese Ugo Montagna, proprietario della villa dove presumibilmente si sarebbe svolto il festino, una partecipazione complice nell’accaduto. Gli individui presenti alla serata, descritti dalla stampa con l’epiteto di «capocottari», appartenevano all’alta società romana, il che rende plausibile l’ipotesi di un intervento delle forze dell’ordine orientato alla tutela di tali figure influenti.
Un ulteriore soggetto emerge nella vicenda: Anna Maria Moneta Caglio, soprannominata «Cigno Nero» per il collo slanciato e la predilezione per abiti scuri. Figlia di un illustre notaio milanese e determinata a entrare nel mondo del cinema, Anna Maria intratteneva una relazione amorosa con il marchese Montagna. Quest’ultima riferisce di aver fronteggiato una rivale sentimentale, identificata in Wilma Montesi, con cui il marchese l’avrebbe tradita.
Non è tutto: Caglio corrobora le dichiarazioni rese da Bisaccia circa il presunto festino terminato in maniera tragica, precisando di non esserne stata presente ma di averne appreso i dettagli dal suo ex fidanzato, colpevole di infedeltà. Pur affermando di non nutrire intenzioni di vendetta nei confronti del suo precedente partner, la donna sostiene che nella villa di Capocotta si sarebbero effettivamente svolti eventi caratterizzati da eccessi di natura sessuale e dall’uso di sostanze stupefacenti.
Secondo le dichiarazioni, il marchese Ugo Montagna, noto per la sua stretta amicizia con il capo della polizia Tommaso Pavone, sarebbe stato l’individuo responsabile della fornitura di droga durante tali incontri. Parallelamente, emerge la tragica vicenda di Wilma Montesi, descritta come amica sia di Montagna sia di Piero Piccioni, la quale avrebbe trovato la morte in circostanze legate a uno di questi festini. In una dichiarazione finale, Cigno Nero attribuisce la responsabilità del decesso della giovane a Piero Piccioni.
Credendo di essere prossima a scoprire la verità sulla ragazza, decide di affidare un memoriale a un gesuita, che a sua volta lo inoltra al ministro dell’Interno Amintore Fanfani, figura di spicco della Democrazia Cristiana. Fanfani affronta la questione con grande serietà e sollecita il ministero dell’Interno affinché le forze di polizia intervengano per fare luce sulla vicenda. Non passa molto tempo prima che anche queste rivelazioni dirompenti trovino spazio sui giornali.
Emergono dettagli intriganti sulla figura di Ugo Montagna, il proprietario della villa dove sarebbe avvenuto il presunto festino. Per cominciare, non era affatto un marchese. Un rapporto dei carabinieri del 1941 rivela che era solito organizzare incontri con donne dalla dubbia reputazione per soddisfare i piaceri di esponenti del mondo politico. Inoltre, aveva svolto il ruolo di agente dell’OVRA, il servizio segreto fascista che collaborava con gli occupanti nazisti.
Avvalendosi dei legami sviluppati durante quegli anni difficili, Montagna avrebbe cercato l’intervento di Tommaso Pavone, l’allora capo della polizia, per insabbiare rapidamente il caso Montesi. In Parlamento, l’opposizione reclama con forza le dimissioni di Pavone, che vengono infine accolte. L’inchiesta prosegue sotto la guida del nuovo capo della polizia.
A quasi un anno dalla sua morte, il corpo di Wilma Montesi viene riesumato e sottoposto a una nuova autopsia. Durante l’esame si rileva la presenza di sabbia nelle parti intime, un dettaglio che, secondo alcuni esperti, potrebbe essere legato a un rapporto sessuale avvenuto sulla spiaggia. Tuttavia, non emergono tracce di droghe né indicazioni chiare di una causa del decesso diversa da un possibile annegamento accidentale.
Piero Piccioni e il falso marchese Ugo Montagna furono arrestati rispettivamente con l’accusa di omicidio colposo e detenzione di sostanze stupefacenti, e per favoreggiamento. Tuttavia, entrambi vennero rilasciati dopo sessanta giorni di detenzione. Parallelamente, altri nove individui, presumibilmente coinvolti nella controversa vicenda del festino, furono imputati per reati minori.
Le implicazioni dello scandalo si estesero ben oltre il caso giudiziario, provocando significative ripercussioni politiche. Attilio Piccioni, all’epoca ministro, si trovò costretto a dimettersi sia dal suo incarico governativo sia dalle posizioni che ricopriva all’interno del partito. La sua carriera, fino ad allora caratterizzata da un’ascesa inarrestabile, subì una battuta d’arresto definitiva. Questo evento segnò una svolta nella leadership della Democrazia Cristiana, con l’elezione inaspettata di Amintore Fanfani alla guida del partito. Il cosiddetto «Caso Montesi» non solo rappresentò un momento di crisi istituzionale, ma determinò anche un cambio generazionale nelle dinamiche del potere politico italiano, favorendo l’ascesa di una nuova classe dirigente democristiana.
Il Processo
Il procedimento giudiziario ha origine nel 1957 presso il Tribunale di Venezia, presumibilmente con l’intento di scongiurare potenziali disordini pubblici nella capitale. Gli imputati respingono categoricamente ogni coinvolgimento nell’ormai noto festino al centro delle indagini. Piero Piccioni dichiara di non aver mai visto la signorina Montesi: egli afferma con sicurezza che la donna gli era del tutto sconosciuta. Alida Valli, da parte sua, fornisce un alibi per quella sera, sostenendo di trovarsi a Ravello in compagnia di Piccioni, impossibilitato a muoversi a causa di un grave mal di gola. Tale versione viene corroborata da ulteriori testimonianze.
Il verdetto del tribunale assolve tutti gli imputati, anche grazie alle contraddizioni e ai continui cambiamenti nelle dichiarazioni dei testimoni d’accusa, i quali si rivelano inaffidabili e inattendibili. Tommaso Pavone, ex capo della polizia in pensione, viene anch’egli prosciolto dalle accuse di favoreggiamento del presunto omicidio.
Successivamente, l’attenzione si sposta sui calunniatori, i quali vengono posti sotto processo. Tra questi vi sono Silvano Muto, direttore del periodico scandalistico *Attualità*, e due giovani aspiranti attrici, Adriana Bisaccia e Anna Maria Moneta Caglio. Le sentenze prevedono due anni di reclusione per Muto e Caglio, mentre Bisaccia riceve una condanna di dieci mesi; tuttavia, nessuno sconta effettivamente il carcere. Questo segna la fine dell’ondata di interesse mediatico, durante la quale gli organi di stampa avevano incrementato le vendite tra il 50% e il 200% ad ogni nuovo colpo di scena.
Nonostante l’assoluzione degli imputati, le ripercussioni politiche si rivelano significative per la Democrazia Cristiana. Infatti, le indagini avevano coinvolto il figlio di uno dei principali esponenti del partito, gettando ombre sulla sua reputazione. Parallelamente, anche il Partito Comunista subisce ripercussioni indirette: uno dei suoi membri più prestigiosi, l’avvocato Giuseppe Sotgiu – difensore di Silvano Muto e futuro eminente giurista – viene fotografato mentre entra in un bordello accompagnato dalla moglie. Secondo le accuse, la donna avrebbe intrattenuto rapporti con diversi giovani presenti in loco, tra cui un minorenne, circostanza che porta con sé ulteriori implicazioni legali.
Col trascorrere degli anni, tutti i protagonisti della vicenda scompaiono. Il marchese Montagna muore nel 1990 all’età di 80 anni. Piero Piccioni, divenuto celebre come compositore di colonne sonore per il cinema italiano – soprattutto nel contesto della commedia all’italiana, dove collabora strettamente con Alberto Sordi – si spegne a Roma nel 2004 all’età di 83 anni. Infine, il 13 febbraio del 2016, viene annunciata la morte di Anna Maria Moneta Caglio nella sua residenza a Caponago, all’età di 86 anni.

