La Porta ermetica di Roma non è una vera e propria porta, non ha un battente che può essere aperto, anzi si spalanca su un muro, eppure sono in molti a pensare che abbia la capacità di condurre da qualche parte: non fisicamente, ma spiritualmente.
Si ritiene infatti che questi quattro blocchi di marmo (un architrave con frontone rotondo, due stipiti, e la soglia), interamente scolpiti, contengano nientemeno che l’indicazione per compiere la Grande Opera, l’obiettivo finale ricercato dagli alchimisti.
La Porta ermetica, che alcuni chiamano anche Porta dei cieli, Porta alchemica o Porta magica, si trova a Roma, addossata a un vecchio muro di tufo e terra all’interno dei giardini di piazza Vittorio Emanuele II.
Le scritte che la caratterizzano sono difficili da interpretare: gli alchimisti ritenevano che le loro operazioni magiche donassero poteri sovrumani, e che sarebbe stato pericolosissimo renderle accessibili a chiunque.
Per questo la loro saggezza veniva celata a chi non avesse dedicato l’intera vita allo studio dell’alchimia e, tramite il duro e lungo percorso iniziatico, avesse raggiunto una levatura morale e spirituale che gli permettesse di gestire l’enorme conoscenza e ricchezza esclusivamente per fare del bene all’intera umanità e non per tornaconto personale.
La Grande Opera
Attraverso una complessa serie di procedimenti chimici, che possono durare anni, le indicazioni della Porta permetterebbero di raggiungere la Grande Opera, che consiste nella produzione della pietra filosofale. In realtà non si tratterebbe affatto di una pietra, ma di una polvere rossa e friabile, che possiede quella che gli iniziati chiamano una triplice corona, ovvero tre caratteristiche peculiari: la polvere, disciolta in un liquore, si trasforma in elisir di lunga vita, che dona all’alchimista l’immortalità fisica.
La pietra, in secondo luogo, dà all’alchimista uno stato di felicità paradisiaca e, soprattutto, la divina onniscienza. In sostanza, chi compie la Grande Opera raggiunge uno stadio evolutivo superiore, quasi divino, che è quello a cui tutta l’umanità tende e che solo all’iniziato è concesso di raggiungere nel breve tempo di una vita.
L’ultimo potere della pietra è quello della trasmutazione: facendo fermentare la polvere rossa con dell’oro o dell’argento, essa trasmuta in una tintura capace di trasformare qualunque metallo in oro.

Una guida di pietra
La Porta ermetica contiene indicazioni che descrivono i vari passaggi necessari al raggiungimento della Grande Opera, ma lo fanno attraverso un linguaggio criptico, che può essere interpretato solo dagli adepti.
Questa simbologia ermetica, che sembra derivare dai misteri greco-egizi e dalla cabala ebraica, viene solitamente chiamata lingua degli uccelli o gaia scienza, e il suo scopo è proprio quello di tenere i non iniziati all’oscuro dei procedimenti necessari a ottenere la pietra filosofale, che rende onniscienti e immortali.
La Porta ermetica fu scolpita basandosi sulle precise indicazioni di uno dei più celebri alchimisti della Storia, Francesco Giuseppe Borri (1627-1695). Milanese di nascita, Borri si trasferì giovanissimo a Roma per studiare chimica e medicina presso il prestigioso Collegio romano dei Gesuiti.
Nel 1654, lasciò la vita mondana per dedicarsi anima e corpo alla teologia e agli studi ermetici. Divenne un grande esperto di alchimia e dopo anni di studio, come a Roma tutti sussurravano, raggiunse il premio più ambito: la Grande Opera.
A testimoniarlo fu in particolare la regina Cristina di Svezia. La nobile svedese, dopo la conversione al cattolicesimo, aveva rinunciato al trono a favore del cugino Carlo Gustavo e si era trasferita a Roma, a Palazzo Riario.

Per cercare di far fronte ai problemi finanziari che derivavano da uno stile di vita spropositatamente fastoso, teneva incontri riservati agli appassionati di arte alchemica, sperando che qualcuno di loro le rivelasse il segreto per ottenere oro partendo da altri metalli.
Durante queste serate venivano allestiti diversi laboratori, in cui ognuno degli invitati aveva modo di mostrare le proprie capacità. Più volte, si dice, Francesco Borri provò pubblicamente di essere in grado di trasmutare metalli vili in oro puro.
Francesco Borri fu condannato dall’Inquisizione nel 1656. Il motivo non era tanto legato ai suoi studi sull’alchimia, quanto alla dichiarazione di aver ricevuto visioni celesti nelle quali san Paolo e l’arcangelo Michele gli annunciavano grandi cambiamenti nella Chiesa e lo investivano del compito di riformarla.
Per questo Borri fondò una sorta di comunità, raccogliendo intorno a sé un gruppo di seguaci con cui cercare di risanare la cristianità corrotta e portare il regno di Dio in tutto il mondo. A uno degli incontri a Palazzo Riario, strinse amicizia con uno dei devoti gentiluomini che facevano parte dell’entourage della principessa Cristina, il marchese di Pietraforte, Massimiliano Savelli Palombara (1614-1685).
Ricco e appassionato di alchimia, il nobile possedeva una villa che affacciava sulla via Merulana, con un immenso giardino che occupava la zona oggi trasformata in piazza Vittorio Emanuele II. Proprio alla porta del marchese Borri andò a bussare quando il cappio dell’Inquisizione si stava facendo sempre più stretto intorno al suo collo.
Chiese ospitalità per una notte, promettendo in cambio del segreto dell’alchimia. Il marchese Palombara fu ben lieto di ospitare nel suo laboratorio chi si diceva tanto esperto nell’arte di trasmutare i metalli. I due iniziarono insieme l’esperimento, poi l’alchimista disse a Palombara di andare a dormire e si offrì di coricarsi accanto al laboratorio per alzarsi di notte a controllare la buona riuscita delle operazioni.

La mattina seguente, il marchese non trovò nessuno nel laboratorio, ma sul tavolo c’era un pesante blocco di metallo che, dopo le analisi, si dimostrò essere oro di qualità sopraffina. Francesco Borri, come promesso, aveva lasciato al suo gentile ospite un plico di fogli su cui aveva tracciato in un linguaggio ermetico, che neppure il marchese era in grado di decifrare, le varie fasi dell’esperimento.
Dopo anni di vani tentativi alla ricerca di una soluzione agli enigmi del Borri, Palombara pretese che le criptiche indicazioni del famoso alchimista venissero tracciate sulle pareti del laboratorio e sui muri esterni della sua abitazione in una serie di epigrafi, che oggi purtroppo sono quasi tutte scomparse.
L’unica ancora esistente, appartenente a una collezione privata, riporta la scritta La pietra dei saggi non viene data ai lupi, chiaro riferimento al fatto che la pietra filosofale non può essere ottenuta da chi è mosso da avidità e cupidigia.
Nel 1680, forse per essere certo che le indicazioni lasciate da Borri potessero giungere ai posteri e che qualcuno prima o poi avrebbe trovato la chiave per interpretarle, il marchese ordinò che fossero scolpite sull’architrave in marmo di una piccola porta che si apriva nel muro che circondava la sua proprietà, fungendo da ingresso secondario.
Quella che, da allora, sarebbe stata nota come la Porta ermetica fu l’unica parte di villa Palombara a salvarsi dalla demolizione del 1873, dettata da un nuovo piano regolatore. Solo nel 1888 la soglia venne sistemata dove la si può vedere ancora oggi.
In quello stesso anno, forse con la funzione simbolica di guardiani del segreto alchemico, accanto alla porta furono collocate due statue di marmo gemelle raffiguranti il dio egizio Bes, ritrovate durante una serie di scavi nella zona del Quirinale.
Verso altri mondi
Come ogni porta, anche questa è un simbolo perfetto per sancire il punto di divisione tra due luoghi, che possono anche essere due distinte realtà o dimensioni. La porta è il simbolo del passaggio da un posto all’altro, da una dimensione all’altra, da una realtà a un’altra.
Niente meglio di una porta, quindi, può contenere le indicazioni dei procedimenti arcani che consentirebbero di transitare da uno stato di esistenza a un altro, trasformandoci da semplici uomini a iniziati. La Porta ermetica è una soglia parlante, interamente ricoperta di simboli alchemici, oltre che di scritte in latino e ebraico dedicate ai segreti dell’alchimia.
Le parti più visibili e curiose sono indubbiamente i sette simboli che partono dall’architrave e scendono lungo i due stipiti. A ogni simbolo possono essere attribuiti molteplici significati, da quelli astrali a quelli legati agli elementi chimici, fino a vere e proprie operazioni alchemiche.
I simboli sono accompagnati da brevi iscrizioni latine che ripercorrono, sempre in chiave allegorica ed ermetica, le diverse fasi del procedimento da compiere per ottenere la pietra filosofale. Nella parte bassa, un’iscrizione latina chiarisce che cosa debba fare chiunque sia in grado di interpretare la porta e raggiungere la Grande Opera: «È opera occulta del vero saggio aprire la terra, affinché germogli la salvezza per il popolo».
Un invito, una volta ottenuto il premio più alto e ambito, a dedicarsi al bene dell’intera umanità e a impegnarsi affinché il maggior numero di persone possa trarne beneficio. Tra le tante curiose iscrizioni che decorano la porta vale la pena di citare quella che si trova sul piano della soglia: Si sedes non is (se ti siedi, non avanzi); l’iscrizione può anche essere letta al contrario, e in tal caso diventa Si non sedes is (se non ti siedi, avanzi).
Si tratta di un invito a varcare la soglia, anche in senso simbolico, e a non restare in accidiosa immobilità. Il motto, di sapore classico, è poi un consiglio a mantenere attiva la parte più elevata dell’anima, non lasciandola languire in un’inutile inerzia spirituale.
Molti esperti ritengono che le indicazioni visibili della Porta ermetica non siano sufficienti al raggiungimento della Grande Opera: mancherebbero infatti una serie di procedimenti che, con ogni probabilità, erano tracciati sull’altro lato della struttura, oggi non più visibile perché addossato al muro.
Secondo altri, l’intero processo alchemico non dev’essere interpretato in maniera letterale: si tratterebbe di una metafora che conduce a una trasformazione spirituale e psichica. Anche le incredibili capacità della pietra filosofale non andrebbero prese alla lettera, bensì come metafora di un invito continuo ad andare avanti per evolversi e migliorare.
La fuga di Francesco Borri
Dopo la sua breve comparsa nella villa del marchese di Palombara, Francesco Borri decise di lasciare Roma per tornare a Milano e tentare di mettere quanto più terreno possibile tra sé e l’Inquisizione. La sua latitanza durò diversi anni, durante i quali si mosse attraverso numerosi Paesi europei.
Nell’aprile 1670, l’alchimista fu arrestato in Ungheria e immediatamente tradotto a Roma. Costretto ad abiurare le sue teorie nei confronti della Chiesa, riuscì a farsi commutare la condanna al rogo in quella nel carcere a vita.
Morì in una cella di Castel Sant’Angelo il 13 giugno 1695, colpito da un attacco di febbre malarica. Secondo alcuni i deliri mistici di cui fu vittima e che gli causarono i guai con l’Inquisizione furono dovuti alle eccessive dosi di mercurio assunte in varie fasi della sua vita per tenere a bada i sintomi della sifilide.