Per decenni gli Stati Uniti scelsero di non investire nelle reti spionistiche. Ma dopo la Seconda Guerra Mondiale la nascita della Central Intelligence Agency cambiò le carte in tavola.
«I veri gentiluomini non leggono la posta degli altri», dichiarò il Segretario di Stato americano Henry Stimson nel 1929. Con queste poche parole Stimson sciolse la Black Chamber, l’unità di crittografi civili che gli Usa avevano costituito durante la Prima Guerra Mondiale, sopravvissuta per un decennio.
Lo spionaggio era stato essenziale per la crescita e per la sicurezza della federazione sin dalla Guerra d’Indipendenza. Però le strutture di intelligence erano sempre state legate ai militari e all’uso della forza, cose che non andavano molto a genio alla società civile statunitense.
Si poteva anche concedere qualche strappo in tempo di guerra, ma impegnarsi nello sporco lavoro di spia in pace era anatema per i suoi ideali, valori e tradizioni. La protezione che garantivano gli oceani contro le turbolenze in Europa e in Asia avevano rafforzato l’isolazionalismo americano.
Prima della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti potevano scegliere quando e come scontrarsi con le altre grandi potenze. Ma l’attacco giapponese a sorpresa a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, costato più di 2500 vite, fece crollare quel mito e segnò la fine dell’innocenza americana. Il Giorno dell’Infamia, secondo la famosa definizione di Franklin D. Roosevelt, fu il catalizzatore dell’appuntamento col destino degli Usa.

Il Paese, facendo ricorso alla sua potenza militare e alle infinite risorse, avviò una grande crociata contro Giappone e alleati, soprattutto la Germania nazista. La vittoria arrivò in Europa nell’aprile/maggio 1945, con il suicidio di Adolf Hitler e la resa della Germania. Ci vollero però due bombe atomiche nel mese di agosto per far cessare la guerra contro il Giappone. Gli Stati Uniti erano di nuovo in pace. Eppure erano cambiati.
Pearl Harbor diventò l’emblema dell’impossibilità di fidarsi di un altro Stato. Persino la barriera dell’oceano non poteva più fornire una difesa sicura. L’invasione giapponese di Cina, Indocina e altre regioni dell’Asia nel decennio precedente era arrivata a minacciare anche la colonia americana delle Filippine, pertanto i servizi di Esercito e Marina avevano fatto il possibile per monitorare i movimenti delle forze nipponiche e le intenzioni di Tokyo.
I loro sforzi congiunti avevano portato persino alla decifrazione del codice viola giapponese, un grande successo, ma ancora non bastava. Le informazioni sparse non erano coordinate né comunicate: infatti l’attacco a Pearl Harbor arrivò inatteso.
Nel 1962 fu eretto un memoriale agli oltre 1100 marinai e marine americani che giacevano sul fondo del mare sotto l’Arizona. Lo visitano parecchi milioni di persone l’anno. Ma un memoriale altrettanto degno alle vittime di Pearl Harbor fu la nascita della nel 1947. Un rapporto ufficiale del dopoguerra concludeva che la CIA potrebbe attribuire la sua esistenza all’attacco a sorpresa a Pearl Harbor.
Per quanto corretta, questa frase non rende giustizia al tortuoso processo che trasformò per sempre i gentiluomini americani in lettori della posta altrui o alla crescita del mandato della CIA molto oltre questo compito. Il processo partì nel giugno 1942 quando Roosevelt, dopo essersi consultato con i britannici, varò all’interno del ministero della Guerra l’Office of Strategic Services (OSS).
L’OSS, guidato dalla Medaglia d’Onore del Congresso William «Wild Bill» Donovan, reclutò i più in gamba del paese, tra cui quattro futuri direttori della CIA. Un commentatore non esagerò di molto sostenendo che «l’OSS è stato l’incubatore delle spie che avrebbero guidato la CIA». Ancor prima della fine della guerra, Donovan stilò un progetto per rendere il servizio permanente e sotto controllo civile, cioè il suo.

La veloce disintegrazione delle alleanze in tempo di guerra con l’avvento dell’era atomica acuiva le ansie americane sulle possibilità di un’altra sorpresa strategica, giustificando l’ottimismo di Donovan. Invece il successore di Roosevelt, il presidente Harry S. Truman, temeva che il politicamente ambizioso Donovan, un fervente repubblicano, fosse incapace di rispettare la separazione tra democrazia e stato di polizia. Secondo lui, centralizzare l’intelligence sotto il suo comando in tempo di pace rischiava di produrre in loco una Gestapo, definizione che Truman usò più volte.
Il Presidente trovò alleati un po dappertutto. I dipartimenti di Stato, Guerra e Marina erano contrari perché un’agenzia centrale di intelligence avrebbe sconfinato nel loro territorio. E i conservatori si unirono ai progressisti gridando che avrebbe leso le libertà civili «entrando nella vita delle persone a casa loro» anche se spiava all’estero.
I nemici del New Deal si unirono al coro di critiche sostenendo che un servizio segreto unico sarebbe diventato l’ennesima debordante burocrazia federale. Truman rigettò la proposta di Donovan, e il 20 settembre 1945 sciolse l’OSS. Ma la storia non poteva finire così. L’attacco di Pearl Harbor era marchiato a fuoco nella coscienza della gente, e nel 1946 gli americani ormai consideravano Josef Stalin più pericoloso di Adolf Hitler. Una serie di studi del governo fu unanime nel dire che, se si voleva evitare un bis del dicembre 1941, gli Stati Uniti avevano bisogno di un meccanismo che fornisse un preallarme strategico al governo.

Nel 1946 Truman, per rafforzare la sicurezza senza scontentare le varie opinioni e interessi, creò con un ordine esecutivo il Central Intelligence Group (CIG), con un direttore centrale supervisionato da una National Intelligence Authority composta da rappresentanti del dipartimento di Stato e dei ministeri di Guerra e Marina, più il Presidente. Il CIG doveva coordinare e valutare le informazioni relative alla sicurezza nazionale, e l’appropriata trasmissione al governo delle risultanti informazioni strategiche e di politica nazionale.
Era proibita la raccolta informazioni o sorveglianza in patria. Il CIG era volutamente pensato per essere debole, «un figliastro di tre ministeri separati», per citare il consulente legale. Era alloggiato entro baracche temporanee e aveva uno staff sottodimensionato che riceveva i rapporti dell’intelligence solo a discrezione dei servizi militari e dei ministeri. Il suo direttore era estraneo alla politica e non aveva autorità sul budget. Non potendo richiedere stanziamenti al Congresso, il CIG dipendeva dai ministri per ogni voce del bilancio.
Il CIG se la passava male, ma intanto la Guerra Fredda prendeva slancio. Nel febbraio 1947 il diplomatico statunitense George Kennan pubblicò sulla rivista Foreign Affairs un articolo in cui dichiarava che l’Unione Sovietica era animata da una struttura politica spinta fanaticamente dal credo che non ci possa essere con gli Usa un permanente modus vivendi, cioè la pace. Un mese dopo, l’ex Primo Ministro britannico Winston Churchill arrivò in America per annunciare che Stalin si comportava come Hitler alzando una cortina di ferro che divideva in due l’Europa.
Poi a giugno, in un discorso a camere riunite, il Presidente Truman dichiarò che l’aggressione sovietica portava una minaccia intollerabile alle «fondamenta della pace internazionale, quindi alla sicurezza degli Stati Uniti». Il mese seguente Truman firmò il National Security Act che poneva le basi necessarie perché gli Usa potessero diventare il paese leader e difensore del Mondo Libero, unificando la struttura militare con la fusione dei ministeri della Guerra e della Marina per creare il ministero della Difesa. Istituiva anche un National Council entro lo Executive Office presidenziale.

Per finire, sostituiva il CIG con la Central Intelligence Agency. Per la prima volta nella loro storia, gli Stati Uniti avevano un’agenzia di spionaggio civile in tempo di pace con un bilancio indipendente, che riferiva direttamente al presidente. Il mandato centrale della CIA consisteva nel raccogliere, analizzare e diffondere informazioni.
Ma il National Security Act conteneva una clausola elastica secondo la quale il mandato dell’agenzia prevedeva di svolgere i servizi ulteriori di comune interesse che il National Security Council decida essere più efficienti se svolti centralmente. Un servizio ulteriore vitale era l’ingerenza politica, definita da George Kennan «l’uso di tutti i mezzi a disposizione di una nazione, salvo la guerra, per ottenere gli obiettivi nazionali».
Nel 1948 il National Security Council assegnò queste ingerenze all’Office of Policy Coordination (OPC), nome pensato per celare la vera missione dell’ufficio: pianificare e condurre operazioni sotto copertura. L’OPC, ospitato presso la CIA e diretto dall’ex agente OSS Frank Wisner, accettò volentieri il mandato. Nel giro di un anno lanciò un’operazione congiunta con l’MI6 britannico per rovesciare il governo comunista di Enver Hoxha in Albania sbarcando o paracadutando espatriati albanesi nel paese. Fu un disastro.
Il doppiogiochista britannico Kim Philby imbeccò i sovietici i quali informarono subito Hoxha. Praticamente tutti gli agenti furono catturati e 300 giustiziati. Nel 1949 anche la CIA subì il suo primo grande scacco quando non preavvertì del riuscito test atomico sovietico. E fallì ancora l’anno dopo quando, a sorpresa, i nordcoreani attaccarono il Sud. Ma per il braccio operativo dell’agenzia (presto ridenominato Direttorato alle Operazioni) la guerra in Corea fu una manna. Gli agenti segreti invasero i paese debordando presto in Cina, Indocina, Filippine e altre regioni asiatiche.

Nel 1952 il personale era quasi decuplicato e il budget moltiplicato per 15, il 75% del bilancio totale della CIA. Quell’anno Dwight D. Eisenhower, appena eletto Presidente, scelse John Foster Dulles come Segretario di Stato e il fratello Allen Dulles come direttore della CIA. Queste scelte rafforzarono il ruolo dell’agenzia nel microcosmo della sicurezza nazionale oltre a istituzionalizzare la preminenza delle azioni sotto copertura nella CIA.
Eisenhower usò le valutazioni dell’intelligence e altre analisi della CIA più dei suoi predecessori e finanziò ricerca e sviluppo dell’aero spia U-2, progettato per sorvolare il territorio sovietico. Lanciò anche il Programma Corona, che portò al rimpiazzo degli U-2 con un sistema di satelliti che scattavano fotografie ai territori sovietici e negati in maniera molto più precisa e completa di qualsiasi aereo da ricognizione.
Creò anche la National Security Agency per spiare le comunicazioni elettroniche. Eppure, anche se la capacità di raccolta informazioni della CIA migliorava, a Washington la sua reputazione era sempre più legata alle azioni coperte, cioè paramilitari. Con una combinazione di bustarelle strategiche, assistenza dell’MI6, manifestazioni orchestrate e pura fortuna, nel 1953 l’Operazione TPAJAX della CIA riuscì a rovesciare il premier Mohammad Mossadeq per riportare lo scià Reza Pahlevi sul Trono del Pavone iraniano.

Un anno dopo la CIA ottenne un altro trionfo in Guatemala con l’Operazione PBSUCCESS, finanziando un finto esercito di liberazione nel vicino Nicaragua, diffondendo false voci di sua invasione del Guatemala dalla propria emittente radio e assoldando piloti mercenari perché lanciassero blocchi di dinamite attaccati a bombe a mano e a bottiglie piene di benzina su punti molto visibili perché il baccano e il fuoco seminassero il panico (Il Guatemala ribattezzò quegli arei sulfatos, lassativi, a causa degli effetti collaterali).
Lungi dall’essere un’operazione militare convenzionale, PBSUCCESS si basò sull’impatto psicologico per creare e mantenere una sensazione di grande forza militare. Funzionò. L’esercito guatemalteco si arrese e il presidente Jacobo Arbenz Guzmán fuggì dal paese. Le operazioni in Iran e Guatemala fecero della CIA la prima linea di difesa contro il comunismo regalandole una leggenda di invincibilità.
Tuttavia né Mossadeq né Arbenz erano comunisti, e la CIA non era invincibile. Il presidente John F. Kennedy diede il via libera a un piano della CIA sulla falsariga di PBSUCCESS per rovesciare un vero comunista, il cubano Fidel Castro. Una forza d’invasione di circa 1400 esuli cubani addestrati dalla CIA fu inviata al disastro sulle spiagge della Baia dei Porci. Ne morirono più di 100 e la metà furono catturati, molti per essere fucilati.

Kennedy si domandò ad alta voce: «Come ho fatto a essere così stupido?». La sua risposta fu accusare, e poi silurare, Allen Dulles. Ma la CIA non cambiò. Il Congresso continuò a finanziare il Direttorato delle Operazioni, tenendo a stecchetto quello dell’Intelligence. Nei decenni seguenti la CIA varò decine di operazioni coperte in Vietnam, Laos, Congo, Centro – e Sud America e in tutto il Medio Oriente. Cercò di rovesciare governi, organizzò assassinii, spiò cittadini americani e fondò organizzazioni di facciata per influenzare le elezioni e le scelte politiche di amici e nemici.

Queste operazioni produssero più conseguenze negative che vantaggi strategici. E nel frattempo la CIA non fornì preallarmi sui missili sovietici a Cuba, sulla rivoluzione del 1979 in Iran, sull’invasione sovietica dell’Afghanistan e sulla fine della Guerra Fredda. La sua incapacità a prevenire gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’errata valutazione delle armi di distruzione di massa irachene portarono a critiche roventi e alla sua retrocessione a divisione del neonato Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale.

Eppure, con la sua campagna dei droni contro i terroristi in Medio Oriente, Asia del Sud e Africa, la CIA resta in prima linea nella sicurezza americana, anche se le sue capacità di analisi e raccolta dati vanno calando. Nata nel 1947 per raccogliere, analizzare e diffondere informazioni, dopo la prima missione armata di un drone contro i talebani afgani nel 2001 è diventata quella che un esperto agente ha definito «una tremenda macchina per uccidere» o quello che un funzionario statunitense considera un mini-comando delle Operazioni Speciali che finge di essere un’agenzia di intelligence.
L’attuale direttore della CIA John Brennan ha tuonato contro la militarizzazione dell’agenzia chiedendo «più impermeabili e meno giubbotti antiproiettile». Ma la storia non sta dalla parte di Brennan.