L’alleanza tra Mussolini e Hitler era soltanto il frutto di un minuzioso calcolo politico o una reale identità di vedute? L’opinione pubblica sovrappone i due leader, ma gli storici evidenziano ciò che li divideva.
Come ben sanno i pubblicitari, gli esperti di marketing e i grandi comunicatori, l’arma più efficace di cui dispone la propaganda è la parola. Più ancora dei fatti e delle idee, è il modo in cui si narrano gli uni e si trasmettono le altre a far presa sulla gente.
Anzi, sulle masse, per usare un termine che andava di moda fra i due conflitti mondiali. Nel Novecento, le guerre furono combattute non soltanto con le armi o mediante intrighi di spie, ma anche con parole coniate appositamente per stigmatizzare il nemico, rendendolo ridicolo, abominevole o insidioso, secondo le necessità.
Una di queste è nazifascismo, Come spiegò lo storico Renzo De Felice, la categoria del nazifascismo «fu inventata dalla propaganda politica degli Alleati, poi passò fra le parole d’ordine della Resistenza e da lì nel linguaggio comune».
Dal 1940 in poi, ponendo sullo stesso piano ideologico e politico il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco, gli Alleati intendevano accomunare i due regimi in un unico intento. Attribuivano loro un’identica responsabilità morale per lo spaventoso conflitto che stava dilaniando l’Europa, sconvolgendo gli equilibri mondiali. Ma è davvero possibile sovrapporre i due regimi? E, soprattutto, è corretto?
Un totalitarismo a metà
Una prima risposta in questo senso fu data nel 1951 dalla studiosa Hannah Arendt: il totalitarismo non vuole soltanto che i cittadini, privati di ogni libertà, gli obbediscano in modo assoluto, ma vuole anche farne dei fedeli, ligi a una sorta di religione laica incentrata sul credo totalitario.
È quello che fecero, a diverso titolo, la dittatura nazionalsocialista di Hitler e quella comunista di Stalin. La dittatura fascista di Mussolini, invece, fu sicuramente liberticida e talvolta violenta, ma non instaurò mai un clima di terrore per mantenere il controllo sulla popolazione, come accadde invece nei regimi tedesco e sovietico.
La posizione della Arendt, benché controversa, è particolarmente importante perché venne formulata a soli sei anni dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, ossia quando gli animi erano ancora scossi dagli esiti del recente conflitto. Inoltre, la studiosa era di origini ebraiche, e ciò non poteva non pesare su una sua valutazione del fenomeno nazifascista. La stessa posizione fu sostenuta dallo storico francese Robert Aron (anch’egli di origini ebraiche), che definì il fascismo un totalitarismo attenuato, cioè intermedio tra autoritarismo e vero totalitarismo.
Per alcuni, basterebbero già queste considerazioni a distinguere in modo inequivocabile i due regimi, anche senza approfondirne le caratteristiche. Tuttavia fascismo e nazionalsocialismo erano regimi radicalmente diversi sul piano sociale, culturale e di politica estera. È innegabile che dal 1933 in poi l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler svilupparono punti di contatto sempre più forti, tanto da giustificare la loro percezione come due facce di una stessa medaglia, almeno agli occhi dei loro contemporanei.
Le vicende storiche del fascismo e del nazionalsocialismo s’intrecciarono strettamente fin dagli inizi, in un complesso gioco d’influssi reciproci venati, a seconda dei casi e dei momenti, di irritazione, emulazione e ambiguità.
Nell’ottobre del 1922, dopo la Marcia su Roma, Benito Mussolini fu nominato presidente del Consiglio dei ministri. L’evento non solo suscitò scalpore nell’opinione pubblica internazionale, ma rappresentò un’iniezione di entusiasmo negli ambienti di destra e conservatori di tutta Europa.

In Germania (soprattutto in Baviera, dove le destre erano forti), i giornali presero a parlare di fascismo bavarese e a definire Hitler il Mussolini tedesco. La Marcia su Roma veniva additata da più parti come un modello che la Germania avrebbe dovuto seguire di lì a poco. Il 6 novembre, sulla rivista Gewissen apparve un articolo significativamente intitolato Italia docet (l’Italia insegna), firmato da Arthur Moeller van den Bruck.
Ideologo della rinascita nazionalista tedesca dopo il 1918 ed esponente di punta della cosiddetta rivoluzione conservatrice, fu lui a introdurre nel lessico politico l’espressione Terzo Reich. Almeno agli inizi, tuttavia, il Partito Nazista (Nsdap) non era compatto nell’apprezzamento di Mussolini e del fascismo: spiaceva la politica repressiva in Alto Adige, si nutriva diffidenza per il venir meno di un’apertura al socialismo e infine si biasimava la mancanza di un sentimento antisemita.
Su quest’ultimo punto, Anton Drexler, uno dei fondatori del Partito Nazista, sosteneva che Mussolini era probabilmente ebreo e che comunque il fascismo era un movimento giudaico. Inoltre, sul giudizio negativo nei confronti degli italiani in genere pesava il cambio di fronte della Prima guerra mondiale, quando il Regno sabaudo, benché ufficialmente legato alla Triplice Alleanza di Germania e Austria-Ungheria, aveva temporeggiato per poi schierarsi al fianco dell’Intesa.
Manovre di avvicinamento
Le cose iniziarono a modificarsi nel 1930, dopo la prima importante affermazione elettorale del nazionalsocialismo, il 14 settembre di quell’anno, quando l’Nsdap s’impose come secondo partito nazionale, con oltre sei milioni di voti.
Ma questa volta fu il fascismo a spaccarsi sull’apprezzamento del nazismo: il quindicinale «Critica fascista», fondato e diretto da Giuseppe Bottai, continuava a mostrare un’aperta diffidenza nei confronti di Hitler e del suo schieramento, mentre la rivista ufficiale del regime, «Gerarchia», fondata e diretta da Mussolini stesso, commentava il successo elettorale nazista affermando che «l’idea fascista si fa strada nel mondo».
Ma si trattava soltanto di una mossa politica: Mussolini considerava ancora Hitler alla stregua di un fanatico (un pagliaccio pazzo, lo definì, parlando con un collaboratore), e non pareva attribuirgli troppa credibilità. Al contrario, la venerazione di Hitler per l’italiano era testimoniata dal busto di Mussolini a grandezza naturale che adornava il suo ufficio nel quartier generale del partito, a Monaco.
In realtà Hitler era fermamente convinto di una comunità di destino da realizzarsi tra Germania e Italia, e lo mise nero su bianco in una lettera indirizzata al Duce nel giugno del 1931:
«Le relazioni spirituali esistenti tra i canoni fondamentali ed i principi del Fascismo e quelli del movimento da me condotto, mi fanno vivamente sperare che dopo la vittoria del nazionalsocialismo in Germania, vittoria alla quale ciecamente credo, si potrà ottenere che anche tra l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista si formino le stesse relazioni per il bene delle due grandi nazioni».
La saldatura tra Roma e Berlino
La svolta decisiva ebbe luogo il 30 gennaio 1933, quando Hitler fu nominato cancelliere del Reich. Ora i rapporti non erano più tra un modello da seguire e un devoto ammiratore, ma tra due pari grado. E le conseguenze si sarebbero fatte sentire molto presto.
Hitler acquisì rapidamente sicurezza e autorevolezza, mentre sotto la sua guida la Germania bruciava le tappe dell’ascesa sullo scacchiere internazionale. Al contrario, l’invasione dell’Etiopia del 1935 costò a Mussolini le sanzioni da parte della Società delle nazioni e l’isolamento politico da parte dell’Europa.
L’unico a tendergli la mano fu Hitler: superando la freddezza seguita all’uccisione (da lui stesso commissionata nel 1934) del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, amico personale di Mussolini, il Führer iniziò a tessere una tela destinata a risucchiare l’Italia nel gioco della politica estera tedesca.
Ogni frizione parve scomparsa, e nell’ottobre del 1936 Germania e Italia siglarono un protocollo d’intesa che impegnava le due nazioni a collaborare su vari piani, da quello della politica estera a quello militare.
Il 1° novembre, in un discorso ufficiale tenuto a Milano, Mussolini dichiarò che «questa verticale Berlino-Roma non è un diaframma, è piuttosto un asse attorno al quale possono collaborare tutti gli Stati europei animati da volontà di collaborazione e di pace».
Era nato l’Asse Roma-Berlino. Da questo momento, le sorti del fascismo furono indissolubilmente unite a quelle del nazismo, e nella considerazione del mondo i due regimi finirono per coincidere.
Nel settembre 1937, Mussolini si recò in Germania e, al termine del soggiorno, tenne un discorso celebrativo in tedesco imperniato sull’alleanza che legava stabilmente le due potenze. Nei due anni successivi, il fascismo parve ricoprire un ruolo di secondo piano sulla scena internazionale, messo in ombra e quasi schiacciato da una Germania sempre più trionfante.
Anche per questo, Mussolini non poté protestare contro l’Anschluss, l’annessione dell’Austria, avvenuta l’11 marzo 1938. Arrivò addirittura a realizzare il varo delle leggi per la difesa della razza, annunciate il 18 settembre e ufficialmente approvate (con il beneplacito di re Vittorio Emanuele III) a novembre.
Erano volte a penalizzare gli ebrei italiani e leggibili quasi come un omaggio verso il potente alleato germanico. Mussolini non si oppose neppure all’invasione della Polonia, il 1° settembre 1939. Fu quest’ultima concessione a segnare il destino dell’Italia, costretta a entrare in guerra al fianco dell’alleato tedesco, a dispetto della manifesta impreparazione tecnica e militare.
Il Duce cercò di temporeggiare, facendo presenti a Hitler le oggettive difficoltà del Paese; ciononostante, il 10 giugno 1940, gli italiani presero le armi. Gli strepitosi successi militari della Germania facevano pensare a una rapida risoluzione del conflitto, e alla fine del 1940 Mussolini decise di imbarcarsi in una guerra parallela invadendo la Grecia, ritenuta una facile preda, con l’intento di recuperare autonomia e credibilità agli occhi di Hitler (forse anche per far intendere che, essendo occupato sul fronte greco, non avrebbe potuto seguire l’alleato in altre avventure).
Il calcolo si rivelò drammaticamente errato e gravido di conseguenze fatali: l’Italia poté uscire a fatica dal pantano greco solo grazie all’intervento tedesco nell’aprile del 1941, e con un enorme dispendio di uomini e mezzi. Contemporaneamente, gli inglesi attaccavano in Africa del Nord, cancellando per sempre il breve impero coloniale fascista.
Poi, nel 1942 e nel 1943 Mussolini inviò consistenti truppe in Russia per supportare Hitler nell’Operazione Barbarossa, che si sarebbe rivelata una mossa suicida per entrambi: per Hitler, in quanto l’impegno a Est diluì il potenziale bellico tedesco su troppi fronti; per Mussolini, perché il disastro dell’Armir, l’armata inviata in Russia, determinò il definitivo scollamento tra il regime fascista e il popolo italiano.
Un abbraccio mortale Il fascismo cadde il 25 luglio 1943. Mentre il re e Badoglio negoziavano un armistizio separato con gli Alleati, che ormai stavano risalendo la penisola, Mussolini veniva confinato prima a Ponza, poi alla Maddalena e infine sul Gran Sasso.
Hitler lo rintracciò e lo fece liberare con un’azione rocambolesca dai suoi reparti speciali. Trasportato in Germania, Mussolini fu pressantemente sollecitato a tornare in Italia per formare un nuovo governo che continuasse a battersi al fianco dei tedeschi.
Il Duce non aveva scelta: tra la fine di settembre e i primi di novembre costituì la Repubblica Sociale Italiana, destinata a sprofondare nel baratro scavato dallo stesso Hitler, mentre il resto della penisola cadeva progressivamente in mano alleata. Una sanguinosa guerra civile, senza esclusione di colpi da entrambe le parti, dilaniava l’Italia forse ancora più che i fitti bombardamenti e le battaglie combattute sul nostro territorio nazionale.
Benito Mussolini venne intervistato per l’ultima volta il 22 aprile 1945 da Gian Gaetano Cabella, direttore del Popolo di Alessandria, al quale affidò quello che viene comunemente considerato il suo testamento politico.
Vi compare una definizione del fascismo che risulta particolarmente illuminante per il tema dei rapporti con l’ideologia hitleriana: «l’idea che è stata e sarà la più audace, la più originale e la più mediterranea ed europea delle idee», a voler sottolineare la profonda distanza che separava, e avrebbe sempre separato (almeno nelle sue intenzioni), i due regimi e le rispettive visioni del mondo. Che ciò fosse vero o meno, è ancora oggetto di aspri dibattiti.