Il ritratto di una figura straordinaria che ha sacrificato la sua vita lottando contro la criminalità organizzata. Una storia di un eroe discreto che pochi conoscono, ma che rappresenta un faro nella Storia del nostro Paese.
Per eliminarlo la mafia ricorse a un metodo mai usato prima: un’autobomba. La mattina del 29 luglio 1983, poco dopo le 8 del mattino, il giudice di Palermo Rocco Chinnici si accingeva, come ogni giorno, a uscire di casa per recarsi al lavoro in tribunale.
Ad attenderlo davanti alla sua abitazione, in via Pipitone 59, nel centro del capoluogo siciliano, c’era un’auto di servizio blindata con la scorta: due carabinieri sulla sua vettura e altri quattro su una macchina al seguito. Ma, parcheggiata davanti al portone dello stabile, c’era anche una Fiat 126 imbottita di esplosivo.
Non appena il giudice apparve sulla soglia del palazzo, un telecomando innescò una terribile esplosione, che devastò l’intera strada. Per Chinnici non ci fu scampo. Nell’attentato morirono anche due carabinieri, il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta, e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi.

Gli altri carabinieri della scorta rimasero feriti, così come alcuni inquilini delle case vicine, negozianti e passanti. L’autista di Chinnici, Giovanni Paparcuri, riportò lesioni permanenti all’udito. «Mi sono posizionato all’incrocio della strada che costeggia l’isolato dove abitava il dottor Chinnici», raccontò uno dei carabinieri sopravvissuti, il maresciallo Ignazio Pecoraro. «Avuta la certezza che stesse per scendere il dottor Chinnici, mi sono girato per fermare le macchine al centro della strada. Ricordo che avevo fermato una macchina e un motorino con due ragazze sopra, ce li avevo proprio davanti. Dopo pochi attimi ho sentito un… ho avuto la sensazione di sentire due colpi, cioè un primo colpo e subito un altro colpo molto più forte e una vampata di calore dietro e sbattuto giù a terra, e non mi sono reso conto di cosa stesse succedendo… Ho cercato i colleghi e non ho visto nessuno in piedi».
Ma perché la mafia ha voluto togliere di mezzo in maniera così devastante e spettacolare, oltre che inedita, il capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo? Chinnici era da tempo in cima alla lista dei bersagli delle cosche siciliane. Il lavoro che da anni svolgeva come magistrato stava arrecando enormi danni a Cosa Nostra.
Una grande intuizione
Al Tribunale di Palermo Rocco Chinnici era arrivato nel 1966, con la qualifica di giudice istruttore. Da subito aveva cominciato a occuparsi delle inchieste sulla mafia. Con il tempo era diventato magistrato di Corte d’appello, consigliere istruttore aggiunto e, infine, consigliere istruttore: in questa veste aveva preso a dirigere l’Ufficio istruzione, che nel vecchio ordinamento giudiziario era formato dai magistrati che istruivano, cioè promuovevano e conducevano le indagini penali.
In quegli anni, la mafia aveva enormemente accresciuto potere e ambizioni, anche grazie alla complicità di settori della politica e delle pubbliche amministrazioni locali, ed era arrivata a sferrare un attacco senza precedenti allo Stato. Di fatto, era entrata in concorrenza con esso per il controllo del territorio.
Nel corso di questa guerra caddero magistrati ed esponenti politici, uomini delle forze di polizia e semplici cittadini. Di fronte a una simile escalation di violenza, Chinnici rivoluzionò la gestione delle indagini sui clan, attraverso l’istituzione di una squadra di magistrati, che venne poi definita pool antimafia. Un’intuizione tanto semplice quanto decisiva per assicurare alle inchieste di mafia la continuità indispensabile a condurle fino in fondo, ovvero al processo e alla sentenza.
Fino ad allora, le inchieste sulla mafia erano state affidate a singoli magistrati: bastava eliminarli per rallentarle, o fermarle per sempre. Chinnici creò invece gruppi di lavoro formati da magistrati e investigatori delle forze di polizia. L’attività investigativa e istruttoria veniva distribuita e coordinata fra più soggetti. «Un esperimento non previsto dalla legge», osservò una volta Paolo Borsellino, «che ribaltò completamente il modo in cui sino a quel momento si era indagato sui procedimenti mafiosi».
Chi si occupava dei processi di mafia, materia estremamente complessa, oltre che rischiosa, non doveva occuparsi d’altro. Ogni tappa dell’iter giudiziario doveva svolgersi in gruppo. I procedimenti dovevano essere trattati contestualmente da tutti i magistrati, così da cogliere le connessioni tra loro. Una soluzione simile era stata adottata con successo anche per combattere il terrorismo brigatista.
Chinnici fu il primo a ricorrervi nelle inchieste su Cosa Nostra. A far parte dei pool entrarono via via, oltre a Paolo Borsellino, anche Giovanni Falcone, Antonino Cassarà e Giuseppe Di Lello; poi, sotto la guida di Antonino Caponnetto e quindi di Gian Carlo Caselli, si aggiunsero Giuseppe Ayala, Giacomo Conte, Leonardo Guarnotta, Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli, Roberto Scarpinato e tanti altri.
Grazie ai pool, la magistratura palermitana poté infliggere colpi durissimi alle cosche. Dalle loro inchieste trassero origine i più importanti processi di mafia degli anni Ottanta e l’Ufficio Istruzione palermitano divenne un modello di organizzazione giudiziaria: gli investigatori americani, come raccontava con orgoglio lo stesso Chinnici, lo definirono centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d’Italia.
L’impegno di Chinnici contro il fenomeno mafioso non si limitò all’ambito professionale, ma si tradusse anche in ripetuti incontri pubblici incentrati sulla criminalità organizzata, dai mezzi ai quali ricorre ai modi per contrastarla. Fatalmente, questa attività, così intensa ed efficace, finì con l’attirargli l’odio dei vertici di Cosa Nostra.
Sul conto di Chinnici, i Corleonesi avevano quindi ascritto oltre al pool antimafia anche l’impegno sociale e civile da lui messo in campo. Per i boss, quel giudice era divenuto troppo scomodo per lasciare che continuasse a lavorare. «Ce lo trovavamo da tutte le parti», ebbe a spiegare il mafioso pentito Giovanni Brusca, «non si limitava a fare i processi contro di noi, ci combatteva in tutti i modi».
Mandanti ed esecutori
Dopo la sua morte, le indagini accertarono che a rubare la Fiat 126 usata nell’attentato erano stati Francesco Paolo Anzelmo, Stefano e Calogero Ganci. L’auto era stata tenuta in un magazzino del boss Vincenzo Galatolo, che insieme ad Antonino Madonia e a Giovanni Brusca aveva costruito e provato il radiocomando per far esplodere l’ordigno.
A Madonia e Brusca era poi toccato il compito di imbottire l’utilitaria di esplosivo. Ad azionare il detonatore che provocò l’esplosione in via Pipitone fu Madonia, che nei giorni precedenti aveva svolto alcuni sopralluoghi. L’autocarro dal quale Madonia azionò il radiocomando era stato parcheggiato nella via da Giovan Battista Ferrante.
Per la strage furono condannati in via definitiva all’ergastolo dodici imputati, fra i quali i boss mafiosi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, allora capi del mandamento di Corleone, ritenuti i mandanti. Per la stessa ragione, oltre ai citati Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo e a Stefano Ganci, furono condannati al carcere a vita i capi mandamento della Noce di Palermo, Raffaele Ganci; di Boccadifalco, Salvatore Buscemi; di Partinico, Antonino Geraci; di Porta Nuova, Giuseppe Calò; di Resuttana, Francesco Madonia; di Villabate, Salvatore Montalto; e il sostituto di questi, Giuseppe Montalto.
A Ferrante e a Calogero Ganci vennero inflitti 18 anni di reclusione; ai collaboratori di giustizia Brusca e Anzelmo, rispettivamente 16 e 15 anni. Dopo Chinnici molti altri eroi sono morti sotto il fuoco delle cosche mafiose. Storie da non dimenticare. Esempi di uomini che hanno creduto nel sogno di un’Italia migliore.