Nessuno in passato, ha mai chiesto agli africani liberi nel loro continente il desiderio di lasciare la loro terra. Venivano catturati, incatenati dalla testa ai piedi e stipati nelle navi europee adibite al trasporto di schiavi, che venivano scambiati per merci o semplicemente venduti.
Questo era il destino riservato agli africani a bordo della São José Paquete de Africa, una nave portoghese, salpata dal Mozambico nel 1794 con destinazione Brasile. Quando la nave si impigliò tra due barriere coralline al largo della costa di Città del Capo, in Sudafrica, si spezzò in due e le onde impetuose portarono alla morte 212 dei 512 prigionieri africani a bordo.
Dopo essere salpata dal Mozambico, la Sao Jose iniziò il suo viaggio di quattro mesi per consegnare gli schiavi ai proprietari delle piantagioni di zucchero a Maranhao, in Brasile. Premuti l’uno contro l’altro, gli schiavi erano rimasero incatenati nella stiva per quasi tutto il viaggio.
Dopo ventiquattro giorni di navigazione, la nave si imbatté in una violenta tempesta intorno al Capo di Buona Speranza. Cercando di aggirare i venti violenti, la Sao Jose si ritrovò troppo vicino alla riva, dove si ruppe rapidamente dopo essere rimasta impigliata. L’equipaggio cercò aiuto sparando con un cannone.
Il capitano, l’equipaggio e circa la metà degli schiavi furono salvati. Sebbene il capitano abbia cercato di salvare i rimanenti 212 schiavi, morirono nelle acque agitate. I proprietari degli schiavi avevano un interesse particolare per la sopravvivenza di quelle persone, che in quel caso, purtroppo, erano state ridotte a merce. Infatti, nel giro di due giorni, gli schiavi sopravvissuti furono rivenduti.
I primi africani sottoposti a schiavitù arrivarono a Point Comfort, in Virginia, oggi Hampton, nell’agosto del 1619. Esistevano più di 12.000 navi che effettuarono più di 40.000 viaggi nel corso dei 250 anni di commercio degli schiavi. Ad oggi, nella banca dati sono presenti solo cinque navi [schiaviste] della storia marittima. Perché?
La São José Paquete de Africa è la prima nave di cui è stato confermato il trasporto di un carico umano destinato alla schiavitù quando è affondata. I manufatti recuperati dalla nave sono esposti a Washington, DC, presso il National Museum of African American History and Culture. La zavorra di ferro utilizzata per bilanciare il peso umano a bordo della nave, i resti delle catene e una carrucola di legno contribuiscono a rendere umane le vite a bordo.
Allora, le navi che intraprendevano lunghi viaggi usavano zavorre pesanti per mantenerle stabili. Il peso del carico umano era troppo leggero e variabile, specialmente se qualche schiavo fosse morto. La zavorra veniva utilizzata per compensare il peso ridotto degli schiavi.
Dalle profondità dell’Africa, gli schiavi erano strappati alle loro case e alle loro famiglie da avidi commercianti di carne umana. Questi individui si servivano della complicità di crudeli sovrani africani che usavano la schiavitù come strumento di oppressione o di dominio. Il viaggio degli schiavi era un calvario di sofferenze e umiliazioni, attraverso paesaggi ostili e inospitali, fino ai porti dove venivano stipati sulle navi come bestie.
La via verso l’oceano era dura e piena di rischi. A tratti andavano a piedi, a tratti in canoa. Durante il tragitto – legati con dei ceppi di 30 o 40 – erano costretti a portare sulla testa carichi come pacchi, zanne di elefante, mais, pelli o otri d’acqua.
Durante il trasferimento forzato verso la costa, gli schiavi erano costretti a marciare per giorni o settimane, spesso senza cibo o acqua. Una volta arrivati alla costa, venivano rinchiusi in fortezze o in baracche, in attesa che le navi li avrebbero portati oltre l’oceano. Qui venivano acquistati da mercanti provenienti dalle Americhe, dai Caraibi o dall’Europa, che li avrebbero stipati nelle stive delle navi.
Le condizioni atmosferiche influivano molto sulla durata della traversata oceanica. Nei secoli passati, il viaggio poteva durare da uno a sei mesi. Tuttavia, con il progresso tecnologico e la navigazione a vapore, il tempo di percorrenza si ridusse notevolmente: se nel XVI secolo ci volevano mesi per attraversare l’oceano, nel XIX secolo bastavano spesso meno di sei settimane.
Uno dei progressi tecnici che contribuì a ridurre la durata del viaggio fu il rivestimento dello scafo delle navi con lamine di rame. Questo migliorò anche le condizioni di vita a bordo delle navi diminuendo l’umidità all’interno dello scafo.
Le navi che praticavano il commercio degli schiavi erano solitamente affollate di centinaia di esseri umani ridotti in catene, sorvegliati da un equipaggio di circa trenta persone (il doppio rispetto alle navi normali, per prevenire e reprimere le frequenti rivolte: una nave su dieci circa era teatro di sommosse).
Per risparmiare spazio I prigionieri maschi venivano incatenati insieme a coppie, la gamba destra di un uomo era legata alla gamba sinistra del successivo. La condizione delle donne e dei bambini era leggermente migliore, tuttavia erano costretti a salire sulle navi senza vestiti, tremanti e terrorizzati, esposti al freddo, alla fatica e alla fame. Inoltre subivano le angherie (e gli abusi) di uomini violenti, gente brutale che parlava una lingua a loro incomprensibile.
I prigionieri erano nutriti con fagioli, mais, patate, riso e olio di palma in una o due porzioni al giorno, ma le quantità erano insufficienti. La razione giornaliera di acqua era di mezzo bicchiere (circa 250 ml) che causava spesso la disidratazione a causa della sudorazione, del mal di mare e della diarrea.
La traversata dell’Atlantico era una vera e propria strage per gli africani deportati come schiavi. Secondo alcune stime, il 15% di loro perdeva la vita in mare, ma la mortalità era ancora più alta in Africa, dove molti morivano durante la cattura e il trasporto verso le navi.
La mortalità dei passeggeri cresceva in proporzione alla durata del tragitto, poiché le condizioni di salute peggioravano per l’insorgere di malattie come la dissenteria e lo scorbuto, aggravate dalle limitazioni imposte dalla navigazione e dalla scarsità di viveri e acqua potabile.
La depressione era una condizione comune tra gli schiavi, che soffrivano per la privazione della loro libertà, dei loro affetti, della loro dignità e della loro sicurezza. Molti schiavi smettevano di nutrirsi o di curare la propria salute fisica e mentale, aggravando le malattie che li affliggevano. Questo era il risultato della violenza e dell’oppressione che subivano quotidianamente.
Il suicidio era un evento frequente attuato spesso rifiutando il cibo o le medicine o gettandosi in mare o in altri modi. La frequenza dei suicidi era tale che gli schiavisti usavano vari strumenti e metodi per costringere il loro carico umano a nutrirsi, tenuto incatenato per quasi tutto il tempo della traversata.
Ottobah Cugoano, vittima della tratta nel XVIII secolo, descrisse in seguito la sua esperienza a bordo della nave che lo deportò nelle Americhe: “Quando ci siamo trovati prigionieri la morte ci è sembrata preferibile alla vita e abbiamo concordato un piano tra noi: avremmo appiccato il fuoco e fatto saltare in aria la nave e saremmo morti tutti tra le fiamme“.