L’incredibile storia di una donna siciliana che inventò il delitto perfetto vendendo una mistura di acqua, arsenico e vino bianco a uomini e donne che volevano disfarsi del proprio coniuge. Dell’aceto per pidocchi, la Bonanno fece un vero e proprio business della morte.
Era il 27 luglio del 1789 quando Giovanna Bonanno, detta Giovanna l’avvelenatrice o la vecchia all’aceto, fu portata al cospetto della Compagnia dei Bianchi, i nobili palermitani che avevano il compito, per tre giorni, di preparare ed assistere i condannati a morte.
Dai documenti processuali studiati dall’antropologo Salvatore Salomone Marino, risulta che la Bonanno fosse persuasa di offrire un servizio socialmente utile per ridare la serenità a quanti volessero disfarsi del proprio coniuge. Inoltre, non era estraneo il desiderio di migliorare la propria esistenza, da sempre caratterizzata dalla povertà e dall’accattonaggio.
Il 30 luglio l’anziana assassina, descritta come una strega, venne impiccata in una Piazza dell’antica Palermo. Da allora la vecchia megera è entrata nella tradizione palermitana come la protagonista di uno dei temi preferiti e tenebrosi. Si racconta che, all’epoca della rivoluzione francese, tra le strade di Palermo, si aggirava una vecchia mendicante che vendeva acqua miracolosa per le donne che volevano ammazzare il proprio marito.
L’aceto dei pidocchi è un veleno potentissimo e non bisogna tenerlo alla portata di chiunque. Ringraziate Dio che l’avete scampata bella!
Una avvelenatrice senza scrupoli, ma non una strega e nemmeno una fattucchiera. L’occasione per dare una svolta alla sua vita arrivò quando un giorno – in via Papireto – trovandosi dall’aromatario, vide una madre portare la sua bambina sofferente fra le braccia, aveva bevuto per sbaglio un sorso di aceto per pidocchi che l’aromatario stesso vendeva.
Subito, questi le fece ingoiare dell’olio fino a che la povera bambina non vomitò avendo così salva la vita. Fu allora che la Bonanno intuì subito che questo intruglio era qualcosa da cui poterne trarre benefici economici. La quale senza indugio comprò due grani (quattro centesimi) del misterioso aceto.
Ne inzuppa del pane e lo somministra ad un cane. Con soddisfazione si accorge che il cane è morto, vomitando cibo e bava, ma che non ha mutato colore, non è rimasto spasmodicamente contratto. Ecco un veleno sicuro che dà il passaporto per l’altro mondo senza sospetti e senza farsi scoprire.
Nel 1786 iniziarono i primi delitti, ne verranno scoperti solo sei, ma si sospetta che possono essere stati molti di più. Giovanna aveva sempre dichiarato che si guadagnava da vivere facendo la mendicante, probabilmente praticava anche qualche piccola fattucchieria, ma erano i veleni la sua specialità, ormai troppo vecchia per chiedere l’elemosina.
Inoltre, non aveva alcuna difficoltà a procurarsi dal bottegaio il micidiale e mortale aceto: una mistura di acqua di fonte, vino bianco ed arsenico, in libera vendita e destinata ad ammazzare i pidocchi. Dopo tre anni dalla scoperta delle morti sospette, la donna venne arrestata.
Dopo essere stata torturata, ammise di essere stata lei la responsabile di quelle morti vendendo alle donne insoddisfatte della vita loro coniugale, il suo particolare liquore all’aceto. Al magistrato inquirente la vecchia megera disse di chiamarsi Giovanna Bonanno, ma in realtà il cognome Bonanno era quello del marito, di cui era vedova. Molto probabilmente la venditrice di morte si chiamava Pantò.
Risulta che un Vincenzo Bonanno, che abitava a Noviziato, aveva sposato nel 1744 una donna dal nome Anna Pantò. Tra il nome Anna e Giovanna c’è molta somiglianza, quindi, si potrebbe trattare di un errore, una falsificazione oppure di un’errata trascrizione.
La prima cliente di Giovanna era stata Angela La Fata che voleva liberarsi del marito per poter stare con il suo amante Giuseppe Billotta. La venditrice di veleni le consegnò una ampollina con all’interno il famoso liquido: la stessa dose usata per far morire quel povero cane. Ma non bastò. Il tentativo di assassinare la povera ed ignara vittima dovette essere ripetuta per altre tre volte.
Alla fine l’uomo morì in ospedale tra vomiti e tremende sofferenze, senza che nessun medico ne capisse la causa. Omicidio perfetto. Fu così che cominciò a chiamare la sua mistura arcano liquore aceto. Nel quartiere popolare Zisa di Palermo, cominciano a verificarsi morti molto misteriose.
La seconda vittima fu un fornaio, Ferdinando Lo Piccolo. A volerlo ucciderlo la moglie Emanuela Molinari che chiese ad una sua amica, di contattare la Bonanno. Per il fornaio furono necessarie due dosi di aceto. Ben presto la fama di Giovanna si consolidò ed altre donne le procuravano le clienti chiedendo in cambio qualche spicciolo. Due altre vittime le furono commissionate da Rosa Billotta. Moriranno Agostino Caracciolo su richiesta della moglie Rosalia Consales con la complicità della madre.
Ma non erano solo donne le clienti di Giovanna, ma anche uomini. Il fornaio Peppi D’Ancona per far fuori la moglie, Rosa Coschiera, promise a Giovanna una somma in denaro che poi non pagò, ma la moglie morì. Nella cerchia di amiche avvelenatrici entrò a far parte Maria Pitarra che procurò a Giovanna buoni clienti: le vittime furono Cesare Ballo ammazzato dalla sua giovane moglie Marianna Tabbitta che voleva sposare il suo amante.
L’ultima vittima accertata fu Francesco Costanzo avvelenato dal particolare liquore di Giovanna dalla moglie Rosa Mangano che aveva una relazione amorosa con un giardiniere. Ma Giovanna, ormai prossima agli 80 anni, commise un errore che le costò la vita e la macabra carriera.
Per questo ultimo omicidio consegnò le ampolle alla sua amica Pitarra non sapendo a chi erano destinate, ma quando seppe che si trattava del figlio di una sua amica, ormai era troppo tardi per rimediare, pensò allora di poter ricevere qualche ricompensa se avesse avuto modo di avvertire per tempo la madre, Giovanna Lombardo.
Nel frattempo, la Lombardo aveva scoperto che proprio sua nuora aveva commissionato la pozione per avvelenare il marito e immediatamente tramò la vendetta organizzando un tranello. Finse di voler comprare una dose di aceto, e al momento della consegna si presentò con quattro testimoni, cogliendo in flagrante la Bonanno, che si ritrovò ventiquattro ore dopo nel vano degli interrogatori, ove, svestita di ogni indumento personale le venne fatto indossare una lungo saio bianco, rasata a zero, e soggiogata alla tremenda tortura della corda.
Il reo veniva legato ad una trave del soffitto, da dove pendeva una corda. A questo punto il colpevole veniva fatto cadere, da due metri d’altezza e coi polsi legati dietro la schiena, così da produrgli delle profonde slogature o fratture alle spalle e alle braccia. La Bonanno crollò subito e confessò i misfatti.
Nell’ottobre del 1788, davanti alla Regia Corte Capitaniale di Palermo, iniziò il processo a Giovanna Bonanno per stregoneria, dove furono chiamati a testimoniare i coniugi superstiti di sei venefici (quelli scoperti e denunciati) ed anche il droghiere che vendeva sistematicamente l’aceto per i pidocchi alla donna.
La condanna riportata in primo grado fu confermata dal Tribunale della Gran Corte. Il 30 luglio 1789 l’avvelenatrice pendeva dalla forca, con lei anche la sua complice Maria Pitarra, trascinata con una fune lungo le strade del quartiere e costretta, prima di morire, a baciare i piedi del boia e del patibolo.
Oggi, un busto in creta di Anna Bonanno è conservato presso il museo civico di Palermo. Il ricordo di questa megera delittuosa è rimasto ancora nel popolo palermitano che, quando vuole dare un giudizio sintetico su una persona cattiva e brutta, esclama:
È cchiù laria di la vecchia di l’acitu! (È più brutta della vecchia dell’aceto!)