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Serial Killer: Javed Iqbal il mostro Pakistano

Un assassino seriale, autore di circa 74 omicidi, che forse potrebbero essere più di cento

Mysteria di Mysteria
17 Novembre 2023
in Serial Killer e Criminali, Cronaca Nera
Tempo di lettura: 5 min
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Home Serial Killer e Criminali
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Javed Iqbal Mughal, noto anche come “il Mostro Pakistano”, nacque nel 1956 a Lahore, nella zona del Punjab, nel Pakistan orientale, era il sesto figlio di un commerciante. Non si conosce nulla della sua infanzia, ma questo conta poco ormai, è stato un assassino seriale pakistano, autore di circa 74 omicidi, che forse potrebbero essere più di cento.

Indice del contenuto

  1. Le origini
  2. Gli Omicidi
  3. L’arresto
  4. Morte

Le origini

Attorno al 1978 iniziò a lavorare mentre si trovava al college, si trasferì a Shadbagh, dove il padre gli comprò due case: il suo obiettivo era lavorare per conto suo fondando un’impresa di rifusione di acciaio. Fino al 1995 si sa poco della sua vita, se non che vivesse con dei ragazzi adolescenti che lo aiutavano nel recupero dei materiali per il suo business.

Nel 1995 alcuni dei ragazzi che lavoravano saltuariamente per lui lo denunciarono per violenza sessuale, ma nei suoi confronti non fu preso alcun provvedimento e il caso venne archiviato. Tre anni dopo, nel giugno 1998, ai suoi danni giunse una seconda accusa, questa volta di sodomia verso minorenni: anche in quel caso si adottò la linea morbida e Iqbal fu rilasciato su cauzione. Probabilmente la scelta del giudice fu dovuta al fatto che durante il suo arresto gli agenti ci andarono molto pesante e lo picchiarono procurandogli alcune lesioni sulla spina dorsale che lo paralizzarono per alcuni mesi.

Gli Omicidi

Non si conosce esattamente la data in cui iniziò a uccidere, poichè si fa riferimento a un diario e a un notebook trovati in casa sua, sul quale Iqbal annotava minuziosamente i suoi omicidi. Le annotazioni riguardavano solo il 1999, per questo motivo tutto il processo si basò su quelle prove, che erano più che sufficienti per accusarlo e condannarlo.

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Iqbal sceglieva le sue vittime tra gli orfani e i ragazzi di strada che avvicinava con promesse di cibo e lavoro; ottenuta la loro fiducia, li convinceva a seguirlo in casa dove li drogava, per poi denudarli completamente e stuprarli, a volte inserendo oggetti appuntiti nel retto. Poi li strangolava con una catena di ferro, smembrava e scioglieva in una tinozza riempita di acido cloridrico. Gli omicidi avvenivano alla presenza e con l’aiuto di tre complici, dei ragazzi adolescenti che dividevano la casa con lui.

Nel 1999, quando le sparizioni divennero decine, iniziò una caccia all’uomo che coinvolse perfino l’esercito, nonostante i numerosi arresti, ma non ci furono risultati.

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Inizialmente Iqbal, si liberava dei resti liquefatti scaricandoli nelle fognature, questo fino al giugno di quell’anno, quando i vicini si lamentarono del cattivo odore. A quel punto lui e i suoi complici decisero di buttarli nel fiume Ravi. I complici si occupavano soprattutto di scattare le foto alle vittime; Iqbal annotava i nomi, le età e le date della morte in un diario e in un notebook, dove furono ritrovati elencati i nomi di 74 bambini di età tra i 6 e i 16 anni scomparsi in zona e mai ritrovati (si crede che ne abbia uccisi più di 130).

Le scarpe e i vestiti venivano conservati in alcuni scatoloni per non lasciare tracce. Ogni delitto gli costò 120 rupie (2,40$), soldi che venivano spesi per comprare l’acido da una persona chiamata Ishaq Billa.

L’arresto

Nel dicembre 1999 inviò una lettera alla polizia e ad un giornale locale, dove confessava l’omicidio di 100 ragazzi, di non provare rimorsi e di odiare il mondo. Il 30 dicembre, per paura che la polizia lo uccidesse, si consegnò presso la sede del giornale “Daily Jang”; venne arrestato poco tempo dopo da un esercito composto da almeno cento soldati. Anche i suoi complici vennero fermati mentre si trovavano nella zona del Sohawa e chiedevano l’elemosina ai passanti.

Nella sua lettera Iqbal scrisse di aver ucciso quei bambini, quasi tutti mendicanti senza una fissa meta, perché avevano cercato di unirsi allo scopo di compiere degli abusi su di lui, cosa che ovviamente non fu affatto creduta (Iqbal aveva 43 anni al tempo). Quella sua lettera fu mostrata ai genitori dei bambini scomparsi, scatenando la loro ira e causando un tumulto generale.

Durante la perquisizione di casa sua, gli agenti trovarono delle prove: macchie di sangue sulle pareti e sui pavimenti, la catena con cui strangolava le vittime, alcune bottiglie di alcol e acido, delle maschere antigas, una raccolta di circa 100 foto appartenenti alle vittime, un grosso mucchio di vestiti, il diario e il notebook. In una tinozza blu c’erano i resti di due bambini; in casa non si trovavano altri corpi. Fuori dall’abitazione c’era un fusto riempito d’acido che conteneva altri resti. Una delle due vittime fu identificata come “Ijaz”.

Con le foto e i vestiti, i parenti di alcuni bimbi scomparsi identificarono i loro figli, che sarebbero stati tutti uccisi da Iqbal. I vicini si dichiararono estranei da ogni vicenda. Il caso attirò molta attenzione sia in Pakistan sia all’estero; il killer si guadagnò il soprannome di “Mostro Pakistano”.

Se la sua condizione era già compromessa agli occhi della società, Javed Iqbal riuscì a peggiorarla ulteriormente, dichiarando che le motivazioni dei suoi omicidi erano:

  • vendicarsi della polizia che quando lo arrestò gli fece del male;
  • l’uccisione dei bambini era stato un atto di carità, una via di luce per quelle piccole vite ormai destinate per sempre alla vita del mendicante;
  • voleva mandare un messaggio ai genitori dei ragazzi, che pensava fossero responsabili di negligenza;
  • si era costituito perché voleva dare della speranza al resto dei bambini mendicanti: lui avrebbe potuto arrivare a 500 omicidi e oltre, ma ad un certo punto si è rifiutato di superare i 100.

Quelle dichiarazioni scatenarono i parenti delle vittime, che si presentarono davanti al carcere dove era detenuto in attesa del processo per reclamare il suo corpo e giustiziarlo. Le autorità e l’esercito faticarono a mantenere calma la folla e più volte scoppiarono tafferugli e aggressioni contro gli agenti. I suoi complici vennero fermati nella zona del Sohawa, dove stavano chiedendo l’elemosina ai passanti.

Pochi giorni dopo l’arresto Ishaq Billa, la persona accusata di avere venduto l’acido a Iqbal e di avere partecipato agli stupri, si suicidò buttandosi dalla finestra del terzo piano di una sede della polizia, secondo i testimoni, morì sul colpo. Secondo un esame post-mortem, la polizia avrebbe usato la forza contro di lui; sempre secondo i testimoni, al momento della morte non indossava le manette.

Il 16 marzo 2000 il giudice Allah Bukhsh Ranjha lo trovò colpevole di 100 omicidi, di alcuni abusi su minorenni e lo condannò a morte: sarebbe dovuto essere portato in un famoso parco, strangolato con una catena di ferro davanti ai parenti delle vittime, tagliato in cento pezzi e sciolto nell’acido, esattamente come fece con i bambini.

 

«…Il corpo del signor Iqbal sarà tagliato in 100 parti e messo nell’acido come lui stesso ha fatto con molti bambini…»

Una settimana dopo la condanna a morte di Iqbal, il Gran Consiglio dell’Ideologia Islamica dichiarò che lo smembramento e la dissoluzione del corpo nell’acido andavano contro l’insegnamento islamico del rispetto per un corpo defunto e annullò quella parte della sentenza. Fu quindi condannato all’impiccagione, così come il complice Sajid Ahmad. Un altro complice, un ragazzo 13enne di nome Muhammad Sabir, fu condannato a 42 anni di carcere. A Nadeem Mohammad, l’ultimo complice, gli vennero inflitti 182 anni di carcere: aveva 15 anni fu dichiarato colpevole di 13 omicidi.

Intanto Iqbal provò a suicidarsi in cella due volte, ma senza successo. Si era fatto l’idea che i poliziotti cospirassero contro di lui. L’avvocato della difesa Faisal Najib Chaundhry espresse più volte alla giuria i timori dell’imputato, ma non ottenne nulla. Dopo avere ascoltato la condanna in aula, il killer giurò sul suo onore di essere innocente; successivamente firmò il verdetto. L’avvocato non escluse la possibilità di chiedere un appello; puntualmente qualche tempo dopo arrivò.

Morte

Iqbal e il suo complice Sajid Ahmad vennero trovati morti la mattina dell’8 ottobre 2001 nel carcere di Kot Lakhpat; inizialmente girò la voce che si fossero avvelenati; poi la versione cambiò: secondo le autorità, si erano impiccati con le lenzuola quattro giorni dopo che ricorsero in appello contro la condanna a morte. Iqbal aveva 45 anni; Ahmad circa 17. L’autopsia sul cadavere di Iqbal indicò dei segni di tortura: sul corpo e sul viso c’erano presenti segni di pestaggio e traumi; sarebbe stato ucciso, ma ciò non è stato accertato fino in fondo.

Un’altra tesi è che un funzionario del carcere abbia aiutato in qualche modo i prigionieri a uccidersi; su quest’ipotesi, che si ricollega alla “teoria del complotto” di Iqbal, è stata aperta un’indagine.

Infine, la polizia gli addossò una cifra di omicidi compresa tra i 110 e gli oltre 130; al processo ne vennero accertati 100; ma, dopo la sua morte, 26 bambini che le autorità pensavano morti vennero trovati vivi: il bodycount di Iqbal quindi potrebbe essere inferiore, forse attorno alle 74 vittime. Il caso è stato ufficialmente chiuso; presumibilmente le morti non sono state investigate al meglio.

Tags: AssassiniCriminaliDossiermostro pakistanoMysteria NewsOmicidi SerialiSerial Killer

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