Anche la scienza ha le sue macabre reliquie. Nei musei scientifici di tutto il mondo si trovano reperti come il cervello del matematico Carl Friedrich Gauss, lo scheletro del medico Cesare Lombroso, il dito medio della mano destra di Galileo Galilei.
Alcuni hanno volontariamente donato il proprio corpo alla scienza, altri invece sono finiti loro malgrado sotto i riflettori. È questa la strana sorte toccata al cervello di uno dei più popolari scienziati di tutti i tempi, Albert Einstein.
Da secoli la scienza cerca di svelare il segreto della genialità, alla ricerca di una particolare conformazione anatomica del cervello che possa essere ritenuta responsabile dell’eccezionale intelligenza di poeti, artisti e scienziati: una corteccia cerebrale più spessa, un corpo calloso più pronunciato, un lobo parietale anomalo.
In molti sperano che i cervelli in formalina, pesati, misurati, dissezionati, scansionati, possano rivelare indizi sulla genialità dei loro proprietari. Contro la sua volontà. Esaminare il cervello di Einstein era un’occasione da non perdere: che cosa l’aveva reso un genio?

Premio Nobel per la fisica e padre della teoria della relatività, Einstein lasciò la Germania nazista nel 1933 per trasferirsi negli Stati Uniti. Convinto pacifista, diventò molto popolare. Per evitare un morboso pellegrinaggio alla sua tomba, Einstein aveva disposto che i suoi resti venissero cremati e le sue ceneri disperse in un luogo segreto.
Nonostante tanti studi, il cervello di Einstein non pare niente di speciale.
Le cose, però, sarebbero andate diversamente. Il 18 aprile 1955, all’età di 76 anni, Einstein morì al Princeton Hospital, in New Jersey, per un aneurisma aortico. Thomas Harvey, il patologo in servizio quella notte, eseguì l’autopsia sul cadavere, rimuovendone il cervello senza un’autorizzazione ufficiale.
Trapelata la notizia, il figlio di Einstein, Hans Albert, non poté far altro che prenderne atto. Chiese tuttavia che il cervello del padre venisse utilizzato esclusivamente per finalità scientifiche. Licenziato dall’ospedale per essersi rifiutato di restituire il maltolto, Harvey vide stroncata la propria carriera.
Giallo. La vicenda presenta ancora oggi aspetti poco chiari. Difficile dire che cosa lo avesse spinto, dato che la sua versione dei fatti è cambiata nel tempo. Potrebbe avere agito su richiesta del suo vecchio insegnante, il medico Harry Zimmerman, o essersi ispirato allo studio condotto dal neurologo Oskar Vogt sul cervello di Lenin, oppure avere semplicemente colto l’occasione di stringere letteralmente tra le mani il cervello di uno dei più grandi geni dell’umanità.
Quel che è certo è che nei mesi successivi Harvey scattò alcune fotografie dell’eccezionale reperto e preparò numerosi vetrini con fettine della materia cerebrale di Einstein (alcuni visibili oggi al Mütter Museum di Filadelfia).
Il resto, sezionato in centinaia di pezzi, finì in barattoli di vetro. Cervello in fuga. Il patologo non si separò facilmente dai resti dello scienziato. Solo verso la fine degli Anni ’90, dopo un incredibile viaggio in macchina per gli Stati Uniti insieme al reporter Michael Paterniti, che ha raccontato quest’avventura nel libro Driving Mr. Albert, il cervello tornò nell’ospedale dove tutto era iniziato.
Negli anni sono stati pubblicati molti studi su quel cervello, ma la chiave della genialità di Einstein resta un mistero.