Nell’agosto 1990 si apre un’orrenda pagina di cronaca nera, un caso che ancora oggi, dopo quasi trent’anni, rimane senza un movente, senza un’arma del delitto e soprattutto, senza l’identità dell’assassino.
Simonetta Cesaroni, 21 anni di Roma, dal gennaio 1990 lavora come segretaria presso uno studio commerciale della Reli Sas. Nel mese di luglio, le è stato proposto di lavorare anche come contabile per alcuni giorni alla settimana nella sede dell’A.I.A.G. (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù), associazione che fa riferimento alla Reli Sas e che ha sede in via Poma, nel quartiere Prati a Roma.
Il pomeriggio del 7 agosto 1990, dopo pranzo, in quello dovrebbe essere il suo ultimo giorno di lavoro prima delle vacanze estive, Simonetta si reca presso la sede dell’A.I.A.G. per sbrigare alcune pratiche. Arriva in via Poma intorno alle 16:00, oggi è sola, gli ostelli della gioventù sono chiusi al pubblico, l’intera città è semideserta.
Simonetta è una ragazza molto riservata, neanche la famiglia è a conoscenza dell’ubicazione degli uffici della A.I.A.G., così come nessuno sa, tranne la madre, delle telefonate anonime che riceve sul posto di lavoro.
Alle 17:15 contatta telefonicamente una sua collega, Luigia Berrettini, per alcuni chiarimenti lavorativi, quella chiamata, è l’ultima testimonianza che la ragazza è ancora in vita. Simonetta, difatti, dovrà contattare il suo datore di lavoro, Salvatore Volponi intorno alle 18:20 per spiegargli come sta procedendo il lavoro. Volponi però, quella chiamata concordata non la riceverà mai.
Alle 21:30 la famiglia Cesaroni non vede arrivare Simonetta per cena, di solito è di ritorno per le 20:00, iniziano a preoccuparsi, contattano Volponi, e insieme a lui, alle 23:30 circa, Paola (sorella di Simonetta) e il suo fidanzato, accompagnati dalla moglie del portiere si fanno aprire la porta dell’ufficio, dove purtroppo, trovano il corpo senza vita della ragazza.
Simonetta è riversa a terra, in una stanza diversa da quella dove lavora, con indosso solo il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, ha il seno scoperto, il top appoggiato sul ventre a coprire le ferite più gravi, quelle mortali. Porta addosso ancora i calzini bianchi corti, mentre le scarpe da ginnastica sono riposte ordinatamente vicino alla porta. Le chiavi dell’ufficio, che aveva nella borsa, sono state portate via.
Delitto di via Poma: le indagini
Dopo le 17.30, ultimo contatto di Simonetta secondo le ricostruzioni degli investigatori, c’è con ogni probabilità un uomo negli uffici, dal quale Simonetta cerca di fuggire, dalla stanza a destra dove lavora a quella opposta a sinistra, forse, è proprio lei che afferra un tagliacarte nel tentativo di difendersi, ma l’assassino la colpisce, talmente forte da provocarle un trauma cranico, sviene.
Viene immobilizzata a terra, l’uomo è in ginocchio sopra di lei e le preme i fianchi con le ginocchia con tanta forza che le lascerà degli ematomi; l’assassino si impossessa del tagliacarte e inizia a pugnalarla per 29 volte.
Infierisce con la lama per sei volte al viso, all’altezza del sopracciglio destro, nell’occhio destro e poi nell’occhio sinistro; otto lungo tutto il corpo, sul seno e sul ventre; quattordici dal basso ventre al pube, ai lati dei genitali, sopra e sotto. Gli esami sul cadavere rileveranno che la ragazza ha ricevuto anche un morso al seno.
Alcuni abiti di Simonetta, fuseaux sportivi blu, la giacca e gli slip sono stati portati via assieme ad altri effetti tra cui: gli orecchini, un anello, un bracciale e un girocollo, tutti in oro, mentre l’orologio le viene lasciato al polso. Sulla scena del crimine manca anche una delle cose più importanti, l’arma del delitto.
Gli agenti di polizia iniziano col setacciare il condominio, cercano i vestiti, gli effetti personali e soprattutto l’arma del delitto, ma nessuno di questi oggetti verrà mai più ritrovato, vengono interrogati tutti i condomini, compresi i portieri dello stabile. Sulla porta dell’ufficio non hanno trovato segni di scasso, questo fa presagire che la ragazza conoscesse colui che diverrà il suo assassino.
Il nodo del delitto si incentra tutto in un’oretta di quel pomeriggio, dalle 17:30 alle 18:30. Il palazzone a quell’ora è muto, è un pachiderma addormentato. I portieri sono nel cortile d’ingresso, al fresco degli alberi, intorno a una vasca rettangolare di stile fascista, se ne stanno più o meno seduti a far passare il tempo: non hanno visto nessuno, ne entrare ne uscire.
Delitto di via Poma: Pietrino Vanacore
Dalle testimonianze raccolte, i primi sospetti ricadono su uno dei portieri, quello dello stabile B, Pietrino Vanacore che non era con i suoi colleghi giù nel cortile a quell’ora, inoltre possiede le chiavi dell’ufficio in cui è avvenuto il delitto. Secondo i suoi colleghi, l’uomo ci prova spesso con la ragazza che lo ha già respinto diverse volte.
Approfittando del periodo estivo e dell’orario pomeridiano, Vanacore avrebbe seguito la ragazza per poi provare a stuprarla: gli inquirenti ipotizzano che il portiere o un ignoto individuo, in preda alla frustrazione per non essere riuscito ad eccitarsi sessualmente, abbia sfogato la sua rabbia nei confronti della vittima, uccidendola, per poi aver tentato di ripulire l’ufficio venendo interrotto da qualcosa/qualcuno, che lo avrebbe costretto ad abbandonare la scena del crimine.
Inoltre, a peggiorare i sospetti, risulta esserci uno scontrino, il cinquantottenne Vanacore, ha acquistato da una ferramenta un frullino alle 17:25. Il portiere durante la testimonianza, afferma che intorno alle 22:30 si è diretto a casa dell’architetto Cesare Valle, più sopra dell’ufficio in cui è stato compiuto il delitto, per fornirgli assistenza, ma lo stesso Valle, però, dichiara che il portiere è arrivato presso la sua abitazione alle 23:00.

La mezz’ora di intervallo tra le due testimonianze porta gli investigatori a sospettare del portiere, al quale sono state anche trovate tracce di sangue sui pantaloni, per gli inquirenti è la soluzione del caso. Vanacore viene arrestato, ma dopo 26 giorni in gattabuia viene rilasciato, dato che le tracce di sangue in questione si sono rivelate sue e causate dalle emorroidi di cui soffre.
Inoltre gli esami sul DNA ritrovato sulla scena del crimine non sono di Pietrino e sui suoi vestiti non vengono trovate altre tracce di sangue, circostanze che scagionano ulteriormente Vanacore.
Delitto di via Poma: Federico Valle
Qualche mese dopo entra nella lista dei sospettati Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare. A farlo finire nel mirino degli inquirenti è la testimonianza di un informatore della polizia, l’austriaco Roland Voller il quale afferma che il ventunenne sarebbe stato in via Poma all’ora del delitto e sarebbe tornato a casa con un braccio ferito e sanguinante.

Anche in questo, caso gli accertamenti successivi sul DNA della scena del delitto non combaciano con quelli di Valle che viene scagionato. La nuova tesi proponeva il seguente quadro: Valle avrebbe ucciso Simonetta in quanto avrebbe scoperto la relazione tra la ragazza e suo padre, il figlio dell’architetto Cesare Valle. Oltre a ciò Pietro Vanacore e sua moglie avrebbero aiutato l’architetto a coprire l’omicidio commesso dal nipote.
Delitto di via Poma: dieci anni di silenzio poi il colpo di scena
Passano dieci anni. Nel ’96 i Cesaroni fanno istanza per la riapertura delle indagini contro ignoti. La richiesta viene accolta e vengono nuovamente interrogati tutti i vecchi personaggi. Poi più niente. Il velo di mistero sul delitto rimane per quasi 24 anni, durante i quali vengono ipotizzate numerose piste collegate ai servizi segreti italiani e alla Banda della Magliana, rivelatesi poi infondate.
Dal 2004 al 2007, i carabinieri dei RIS di Parma effettuano nuove analisi che portano ad un temporaneo colpo di scena, il fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, che nel frattempo si è sposato ed è padre di due figli, è stato inchiodato dal risultato dei test, il DNA sul corpetto della vittima è proprio il suo, inoltre, ad avvalorare le accuse, c’è il morso sul seno sinistro, anche questo sarebbe compatibile con l’arcata dentale dell’uomo. Per gli investigatori non ci sono dubbi, Busco è l’assassino.
Delitto di via Poma: i processi
Nell’aprile del 2009 vengono chiuse le indagini relative all’omicidio di Simonetta il cui unico indagato per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà è l’ex fidanzato della vittima. Intanto viene archiviata una seconda indagine sul portiere Vanacore che nel frattempo è stato accusato di essersi introdotto negli uffici inquinando la scena del delitto.
Il processo contro Busco si apre nel febbraio del 2010, il mese successivo, il 9 marzo, a Torricella (Taranto), viene ritrovato morto suicida Pietrino Vanacore, ormai stanco di essere perseguitato dalla giustizia, lascia due biglietti d’addio: «Vent’anni di sofferenza e sospetti portano al suicidio».

ANSA/RENATO INGENITO/DRN
Il cadavere di Vanacore è stato trovato in mare, si è tolto la vita legandosi una fune ad un piede e assicurando l’altra estremità alla scogliera. Poi ha ingerito dell’anticrittogamico che ha portato con sé in una bottiglietta e si è tuffato nello Ionio alla ricerca della libertà.
Tre giorni dopo Vanacore, avrebbe dovuto testimoniare al processo all’ex fidanzato della Cesaroni. Dopo due anni il processo davanti la Corte d’Assise di Roma si chiude, il 26 gennaio 2011 con la condanna a 24 anni di reclusione per Raniero Busco ritenuto l’assassino di Simonetta.
Dirà poi il legale di Busco su tale vicenda: «La morte di Vanacore è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata. E sicuramente lui non se l’è sentita di testimoniare. Lui ha vissuto con rimorso sulla coscienza questa storia, e non perché lui fosse l’autore dell’omicidio, ma perché sapeva. Evidentemente, però, non poteva parlare neanche a distanza di anni».
È morto portando con sé una scia di misteri Pietrino? Non lo sapremo mai.
Delitto di via Poma: Raniero Busco viene condannato a 24 anni di reclusione e poi assolto
Dopo più di vent’anni, c’è un verdetto, Raniero Busco viene condannato a 24 anni di reclusione, il pubblico ministero Ilaria Calò aveva chiesto l’ergastolo, ma la terza sezione della Corte d’assise di Roma concede all’imputato le attenuanti generiche.
I legali di Busco dopo la sentenza: «È una sentenza che non ci aspettavamo. Non ce l’aspettavamo noi avvocati e nemmeno Raniero», ha detto Paolo Loria, difensore di Busco. «Adesso aspettiamo di leggere le motivazioni, poi sicuramente ricorreremo in appello». Infatti è stato proprio così.

Successivamente In appello, gli avvocati di Busco fanno emergere che il segno sul seno potrebbe non essere compatibile con un morso, inoltre il DNA ritrovato sulla scena del delitto è compatibile con quello di Busco, si, ma lo è anche con altri due profili genetici appartenenti a due uomini.
Il processo, si riapre nel novembre 2011 e si chiude con l’assoluzione di Busco per non aver commesso il fatto il 27 aprile 2012, assoluzione confermata anche dalla Corte di Cassazione in via definitiva il 26 febbraio 2014.
Ad oggi, da quel maledetto 7 agosto 1990, il delitto di via Poma non ha un colpevole ed il caso, ricco di misteri e controversie, rimane irrisolto. Tutto finisce con una dissolvenza su questi mesti titoli di coda. Senza musica di commento, in amaro silenzio.