Più di 1.000 anni fa, un’organizzazione esoterica nota come Shingon, che combinava elementi di buddismo, antico shintoismo, taoismo e altre religioni, sviluppò la macabra tecnica dell’auto-mummificazione di un corpo vivente. L’obiettivo era quello di dimostrare l’ultimo atto di disciplina e devozione religiosa.
Il Buddismo Shingon è una delle principali scuole di Buddismo in Giappone e uno dei pochi lignaggi Vajrayana sopravvissuti in Asia orientale, originariamente diffuso dall’India alla Cina attraverso i monaci viaggiatori.
Questa pratica, nota come Sokushinbutsu, fu introdotta per la prima volta da un sacerdote giapponese di nome Kukai e prevedeva l’essiccazione del corpo per diversi anni in un processo estenuante che portava inevitabilmente alla morte e alla mummificazione del corpo.
Le fasi di mummificazione del proprio corpo erano estremamente rigorose e dolorose. Durante i primi 1.000 giorni, i monaci smettevano di consumare qualsiasi alimento, tranne noci, semi, frutta e bacche, impegnandosi a svolgere un’intensa attività fisica per smaltire tutti i depositi di grasso.
Per i mille giorni successivi, la loro dieta si limitava solo a cortecce e radici. Verso la fine di questo periodo, consumavano un tè velenoso ricavato dalla linfa dell’albero Urushi, che provocava vomito e la rapida perdita dei fluidi corporei. Fungeva anche da conservante eliminando larve e batteri che altrimenti avrebbero causato la decomposizione del corpo dopo la morte.
Nella fase finale, dopo più di sei anni di dolorosa preparazione,, il monaco si rinchiudeva in una bara di roccia appena sufficiente a contenerlo, dove entrava in uno stato di profonda meditazione. Rimanendo immobile nella posizione del loto, non si sarebbe più mosso fino alla sua morte.
Un piccolo tubo d’aria forniva ossigeno alla sepoltura. Ogni giorno il monaco suonava una campanella per informare il mondo esterno che era ancora vivo. Quando la campana avrebbe smesso di suonare, il tubo veniva rimosso e la tomba sigillata per l’ultimo periodo di mille giorni del rituale.
Alla fine di questo periodo, la tomba veniva aperta per constatare se il monaco fosse riuscito a mummificarsi. Se il corpo veniva trovato in stato di conservazione, il monaco veniva elevato allo status di Buddha, il suo corpo veniva rimosso dalla tomba e collocato nel tempio, dove veniva venerato e riverito.
La pratica dell’auto-mummificazione continuò fino al XIX secolo, quando fu vietata dal governo giapponese.
Si ritiene che molte centinaia di monaci abbiano cercato di replicare il rituale del sokushinbutsu, ma solo 28 di essi hanno ottenuto la mummificazione. Alcuni di loro possono essere ammirati in vari templi del Giappone.